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Gli eroi dei Mondiali: Lionel Messi, l’uomo senza paura

L’uomo senza paura è Daredevil, l’eroe che ha perso la vista ma sente il mondo come in un dipinto impressionista. Messi, che in campo intuisce prima di vedere, ha superato traumi e difficoltà fisiche. E’ la grande speranza d’Argentina da oltre un decennio. Ma in nazionale ha continuato a mancare il grande appuntamento con la storia.
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Resilienza. Una delle parole più in voga di questi tempi. È buona per tutto e quasi per tutti. L'arte di giocare una buona mano con le carte che hai, vivere cercando di mettere a frutto i talenti pur nelle difficoltà, ha assunto nobiltà semantica. È quello che rende problematico un eroe come Devil, o Daredevil, che non vede ma sente il mondo come un dipinto impressionistico. È quel che rende grande e tormentato Messi, il bambino che non cresceva abbastanza, il campione che non ha bisogno di vedere perché intuisce prima spazi e movimenti, l'eroe che in nazionale ha continuato a fallire.

Uomo senza paura

“Te lo insegnano quando subisci un trauma: riconoscerti per quello che hai, apprezzare la tua diversità, non giustificarti per ciò che hai perso. E di base è tutto vero, lo so bene”. Messi è diverso, lo sa da subito. Questione di centimetri, cresce in intuizione, espande il pensiero calcistico oltre il confine stabilito ai bordi dell'infinito ma non in altezza. Prima del Mondiale del 2006, in Argentina si immaginava un attacco con Aimar, Saviola, Tevez e Messi. “Invece di guardare il Mondiale” commentava il presidente federale Julio Grondona, “noleggiate Biancaneve e i sette nani”. Discorso chiuso. Jose Pekerman, prima dell'esordio contro la Serbia, deve giustificare perché lo tiene in panchina. «Messi è un talento, è al debutto Mondiale ed è reduce da un infortunio (alla caviglia sinistra) che lo ha tenuto fuori a lungo».

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In un quarto d'ora, l'ultimo della non sfida con la Serbia, ha già la visione di chi non ha bisogno di guardare per trovare il suo posto dentro il suo mondo. Assist a Crespo, il gol del 6-0, dribbling e colpi da fuoriclasse. L'Adidas già lo griffa e sulle scarpe fa scrivere «La mano de Dios». L'intuitivo ossessivo rivoluzionario del calcio, l'inventore di quel modello Barcellona da cui è germinato, lo sapeva già bene. «Cruijff mi aveva detto che Messi era un fenomeno» confessa Carlos Bilardo, il ct dell'ultima finale mondiale argentina, mentre son passate le tre e ancora passa con una tazza di caffé in una sala stampa in cui confonde la notte e il giorno, e la partenza con il ritorno. «Aveva ragione». È un uomo senza paura, che tocca i cuori di chi lo ama e inizia a scatenare le reazioni di chi lo teme. Perché “il prodotto non è arte e non ha bisogno di effetti speciali”.

Un improbabile alleato

“Sto per fare una cosa importante e… per stavolta sto per essere me stesso. E tu sai meglio di chiunque altro che non mi va sempre bene”. “Battling Jack” Murdock, il papà del Matt che ha il dono di percepire oltre ogni immaginazione e combattere col diavolo in corpo per la giustizia come Daredevil, vorrebbe che il figlio sentisse la folla che acclama suo padre pugile. “No, non so come andrà a finire ma (…) lui è un bravo bambino e… e di sicuro non ha preso da me. Quindi, è meglio così”.

Messi, che del padre ciecamente si è fidato, anche troppo quando si è trattato di gestire soldi e fondazioni, in Sudafrica di padre ne incontra un altro. La barba bianca, la voce un po' impastata, lo sguardo ancora magnetico: Diego Maradona è un Mondiale a sé, una storia nella storia. Protesta, Guardiola sostituiva sempre gli spagnoli ma a Messi non ha risparmiato nemmeno un minuti. Vuole che sia protetto, «è un patrimonio del calcio, non vorrei che il fair-play fosse solo la passerella di bambini prima dell' inizio della partita. Messi è un patrimonio del calcio».

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Eppure in Argentina, in tutto il cammino delle qualificazioni, dietro le luci più abbaglianti si addensavano le ombre più pesanti. Messi si confessa a Olè, un quotidiano argentino. L'Italia lo scopre sulle pagine della Gazzetta dello Sport. «Nelle qualificazioni non ero io, ora sì, grazie a Diego e compagni. La mia famiglia mi raccontava quello che si diceva in Argentina e io soffrivo: una cosa è criticare per il gioco, un' altra dire che non tengo alla nazionale, che non gioco bene perché mi pagano meno che al Barcellona. Diego mi diceva di essere me stesso, di non preoccuparmi di quello che dicevano gli altri, che lui ci sarebbe stato sempre. Mi sento liberato».

Il recital contro la Nigeria esalta quelle che la stampa di Buenos Aires ha già ribattezzato “le tartarughe ninja”, l'attacco dei piccoli. Di Maria e Tevez si muovono per non fare ombra a Messi, che attira i difensori, scarica, apre spazi ma non segna, come Higuain. Colpa anche del pallone, dice, non è facile da controllare.

Un coniglio in una tempesta di neve

Si lasciano così, Diego smarrito che si stringe la figlia e imbocca il tunnel degli spogliatoi, uno dei tanti di una vita l'uomo e il campione si son fatti ombra troppe volte, e Messi perso pure lui, con gli occhi tristi e le lacrime come il degregoriano fiume sulla riva delle ciglia, che un po' incanta e un po' ti meraviglia. Sembrano Matt Murdock e il padre “Battling Jack”, il suo improbabile alleato nel secondo episodio della serie tv. “Alcune volte anche quando vieni sconfitto vinci lo stesso” dice Jack. “Anche se vai al tappeto, l'importante è rialzarsi”. Possiamo immaginare che Messi e Maradona si dicano parole simili quando si cercano per non affondare da soli dopo il naufragio di una nazione, il 4-0 della Germania nel quarto di finale a Città del Capo, che tutto è stato fuorché di Buona Speranza.

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Come direbbe Matt Murdock “coniglio in una tempesta di neve” alla giuria, è un Messi “molto preso da questioni di moralità. Giusto o sbagliato. Bene o male. A volte il confine tra le due cose è una linea molto netta, a volte è nebulosa”. «Un giorno capirà cosa vuol dire caricarsi sulle spalle una squadra» dice Maradona. È un re che cade, fa rumore come e più di altri. Dietro i baci al nipote, i due orologi che più pacchiani non si può, gli occhiali neri da Scarface e un vestito troppo stretto, resta il crollo di una nazione, la fine di una speranza. Stavolta, la mano de Dios, quella dell'allenatore, non s'è vista. «E' come aver preso un pugno da Muhammad Ali» ammette. E rialzarsi, per quanto importante, è duro lo stesso.

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“Come fossi di vetro”

“La gente mi danza intorno come se fossi fatto di vetro” confessa Matt al miglior amico, Foggy Nelson. È l'amico che lo incoraggia in altre occasioni a non perdere la speranza. “Siamo piccoli, ma straordinari. E faremo la differenza, anche se qualche volta non ti sembra così”. Prima del Mondiale del Brasile, anche Belen Rodriguez si aggiunge al coro di voci per Messi. Piccolo, straordinario, amato e odiato. Fa la differenza contro la Bosnia. In un minuto, rivela la Gazzetta dello Sport, “236 mila persone hanno twittato”. Ma di quella partita si ricorda la fine. Si ricordano le parole di Messi, che parla della rivoluzione all'intervallo, dentro Higuain e Gago e passaggio dal 3-5-2 al 4-3-3. è il suo sistema.

E tutti a chiedersi: chi fa davvero la formazione nella nazionale argentina? «Abbiamo due obiettivi: vincere per staccare il biglietto degli ottavi e migliorare il gioco – dice il ct Sabella -. In Argentina ci sono 40 milioni di allenatori e di medici. Io mi metto tra i medici». L'ironia non gli manca di sicuro. Ma tutti, medici e allenatori, al tramonto della partita con l'Iran dimenticano tutto. Due passi verso il centro bastano a predisporre corpo e visione per la pennellata a giro che trasforma una sofferenza in un capolavoro. E l'illusione continua, con Angel di Maria al fianco. “Diventeremo amici e i migliori avvocati della città” diceva Nelson. Amici, Angel e Leo, lo sono. E sono i migliori avvocati per difendere il sogno albiceleste. Come Burruchaga e Maradona a Messico '86.

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“Il compito non è ancora finito”

Come allora, c'è la Germania in finale. Nessuno, dice Valdano, può aspettarsi una grande prestazione da Messi, al massimo una grande giocata. Nel confronto fra il calcio come collettivo e il pallone come armonia del tango fatta di dribbling elevati ad arte, la differenza salta agli occhi. E quella grande giocata non arriva. Arriva una punizione, segno del destino, tirata nel cielo del Maracanà al tramonto della finale. Di nuovo, come Matt di fronte a padre Lantom, Messi davanti alla nazione cerca “perdono, per non aver fatto di più”. È l'anima che spinge ad agire, gli dice Lantom e in lui si erge la voce della coscienza di un popolo. “Non so cosa non hai fatto o cosa avresti dovuto fare, ma il rimorso significa che il tuo compito non è ancora finito”.

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