Abbiamo vinto un Mondiale grazie (anche) a un insulto in campo e alla testata di Zidane. A Materazzi, che a parole aveva violato le virtù di sua sorella, rifilò una capocciata in petto. Cadde nella provocazione, vendicò l'onore, ma perse la Coppa. Disgrazia fu. Noi, però, facemmo festa. Agli eroi di Berlino tributammo il trionfo del Circo Massimo e nemmeno ci sfiorò l'idea che la violenza verbale del nostro calciatore fosse ugualmente biasimevole. E no, quello fu un atto di furbizia e il francese un fesso impulsivo. Cose di campo, si disse allora, compreso la vergogna di Calciopoli nascosta sotto il tappeto in quell'estate di scandali e sentenze, censori e animelle candide, di quelli che ‘sapevano di non sapere' e quelli che ‘non potevano non sapere'. Due pesi e due misure.
Cose di campo fu il ‘negro di merda' che ai tempi della Lazio Mihajlovic vomitò in faccia a Vieira dell'Arsenal. Eppure quel codice non scritto conosciuto e praticato da tutti portò Mancini a sostenere che "nel corso di una partita l'agonismo esasperato può portare a momenti di tensione e di grande nervosismo. Credo che anche qualche insulto ci possa stare. L'importante è che tutto finisca lì". Cose di campo, sfotto' da stadio furono definiti i buu razzisti a Zoro del Messina che a San Siro ebbe il coraggio di protestare e chiedere all'arbitro che fosse sospesa la partita. Cose di campo, sfotto' da stadio: così sono stati derubricati i cori, gli striscioni, le espressioni ingiuriose nei confronti dei meridionali dai protagonisti del mondo del calcio, siano essi dirigenti (quelli che hanno depotenziato la discriminazione territoriale che non piaceva alle società), calciatori e tecnici, ultrà che si ritengono padroni del giocattolo. Cose di campo, sostenne ‘Mancio', l'importante è che tutto finisca lì. Infatti, nessuno finora ha mai chiesto pubblicamente scusa per quelle nefandezze.
Cose di campo, sostiene (sbagliando) Sarri che quel codice lo conosce come tutti coloro che sanno a menadito le regole/consuetudini del gioco e le accettano. Questo, però, non li rende immuni da responsabilità gravissime se aggredisci (anche solo a parole) un avversario tirando in ballo identità sessuale e quant'altro faccia parte della ‘comune vulgata' oppure cedendo all'ignoranza, ai pregiudizi beceri e da caserma come quando – contrariato dalle decisioni dell'arbitro – sbotto' alla sua maniera: "Il calcio sta diventando uno sport per froci". Anche allora, quand'era in Serie B e alla guida dell'Empoli, in piena trance agonistica, lasciò tracimare quei pensieri in off-side. La fece fuori dal vaso e se ne scusò in diretta tv. Ci ha messo la faccia anche ieri sera, sapendo che il processo mediatico scatenato dalla denuncia di Mancini alla Rai lo avrebbe esposto alla gogna senza attenuanti. "Ero nervoso, ho sbagliato e chiesto scusa. Io, però, non mi sarei comportato come lui". Cose di campo, l'importante è che tutto finisca lì: c'è cascato pure lui, facendo la figura del ‘vecchio cazzone' (secondo la sua versione sul battibecco). Moralismo e ipocrisia: sia attribuire all'uno il ruolo catartico sia all'altro quello di ignorante retrò.
Cose di campo: da un lato il ‘piccolo lord' che ha studiato (e vinto) in Inghilterra e apprezza la fine sartoria napoletana, dall'altro il maestro di campagna che ha la barba di qualche giorno, indossa la tuta, fuma sigarette e ha sul viso una montatura d'occhiali tutt'altro che alla moda. Da un lato un allenatore tra i più pagati del calcio italiano, che ha chiesto e ottenuto dal suo presidente rinforzi milionari ma ancora non è riuscito a dare alla squadra un gioco che piaccia e non sia la riproposizione del ‘vecchio contropiede all'italiana', né una classifica degna degli investimenti fatti. Però fa zero azioni e due gol… e questo pure conta. Dall'altro un allenatore che ha fatto tanta gavetta e spalle larghe, venuto dalla provincia del pallone, ex bancario che ha preferito allenare ai conti correnti e agli assegni da stornare; che davano per spacciato e adesso lotta per lo scudetto; che è capace di entrare nella testa dei giocatori e di parlare al loro cuore; che se ne frega del calciomercato; che guadagna molto meno di Mancini; che ha portato una ventata di novità dimostrando che si può fare grande calcio in una piccola come in una grande piazza. Ammesso che s'impari a gestire la pressione differente e l'eco delle proprie azioni. Ma questo vale per tutti, per Sarri come per Mancini.