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Gli album dei Mondiali: un albero chiamato Francia

Completiamo la serie sulle storie in musica delle grandi nazionali ai Mondiali con la Francia. Una storia segnata dal trionfo in casa del 1998 che ha dato speranze, poi disilluse, a una nazione multietnica. E’ la storia dell’addio mesto di Zidane dopo la testata a Materazzi, del sogno mai realizzato di Platini, del record di gol di Fontaine.
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I rami come braccia tese verso il cielo. Un albero dall'aura simbolica e profetica. Lo chiamano l'albero di Giosuè, che è certo più poetico del nome scientifico di Yucca Brevifolia. Un albero che cresce solitario nel deserto, che può vivere fino a 150 anni. Mette radici, cambia il suo destino dove il futuro appare ineluttabile. Profetico come Jules Rimet, che vide una strada, sognò una coppa del mondo e la rese possibile nonostante tutto. Simbolico come il messaggio della generazione Bleu Blanc Noire, la nazionale multietnica campione del mondo vent'anni fa. E allora, per accompagnare i fotogrammi di storia di una nazione e di una squadra duale, sospesa tra nostalgia di grandeur e nuove destinazioni, le note degli U2. Perché l'albero di Giosuè, per molti, è soprattutto un album che ha cambiato la storia della musica.

Dove le strade non hanno un nome

“Voglio correre, voglio nascondermi, voglio abbattere i muri che mi trattengono”. Voglio sentire “il sole sulla faccia, vedere queste nuvole basse sparire e non lasciare tracce. Voglio rifugio da questa pioggia avvelenata”. Mi trovo prigioniero senza nome, dove le strade non hanno nome. Senza più nemmeno la valigetta di ricordi, che ho lasciato in un deposito a Strasburgo. E i tedeschi mi ruberanno pure quella. Dentro c'era anche la maglia che portavo in un altro giorno di pioggia mista a neve, quando ancora stavamo “bruciando d'amore e costruendo una passione”. Quella per il calcio.

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Lavoravo alla Peugeot, allora, e giocavo a Sochaux. Ero un numero 8 o un 10, ero quello che oggi avremmo chiamato un interno di centrocampo e in quanto ambidestro sapevo giocare a destra e a sinistra. Me lo ricordo quel 13 luglio 1930. “Battuti dal vento, oppressi dalla polvere”, come il giorno dello sbarco in Uruguay. Il viaggio sul Conte Verde, un piroscafo da 1800 tonnellate, fu un evento. Era partito da Genova, con la nazionale rumena, poi ci siamo imbarcati noi francesi a Villefranche-sur-Mer e a Barcellona il Belgio. Tutti diretti a Montevideo, per la prima Coppa del Mondo di calcio. Noi eravamo praticamente obbligati a partire, la coppa l'aveva ideata e voluta il presidente della FIFA, Jules Rimet, un francese. C'era anche lui sul Conte Verde, con la coppa. C'era Josephine Baker, c'era Fedor Chaliapin, la voce della lirica russa. Organizzammo perfino un ballo di gala quando attraversammo l'Equatore. Il giorno della prima partita si gelava. Giocammo in uno stadio piccolo, il Pocitos, che di lì a qualche anno avrebbero demolito. Non erano in tanti a vederci contro il Messico, che ne aveva presi sette in amichevole dalla Spagna. Riesco a segnare dopo 19 minuti, vinciamo 4-1 ma non arriviamo in semifinale. Non ho dato troppo peso a quel gol, allora non eravamo nemmeno sicuri se il torneo sarebbe andato avanti nel tempo. Invece, a non durare saranno quei campi e quella guerra. E mi cercheranno in tanti, ancora cinquanta o sessant'anni dopo. E oggi, a Montevideo le strade un nome ce l'hanno, Enrique Benech ha piantato un palo e un accenno di traversa. Così tutti sanno il punto esatto dove io, Lucien Laurent, ho segnato il primo gol nella storia della Coppa del Mondo.

La cosa più dolce

Un amore che ti “lancia come un pallone di cuoio”. Per inseguire la luce di quell'amore, i riflessi della Nike dorata che solleva il mondo, quella che muove il mondo e le stelle del calcio, Emmanuel Petit va. Si lancia in una corsa figlia del destino. “Non mi fermeranno”, pensa, “sotto questi cieli blu”. Cieli che diventano Bleu quando Christophe Dugarry salta di testa su un calcio d'angolo per il Brasile. Il resto è una chioma bionda che taglia lo spazio e avvera una profezia. L'aveva detto il ct Aimé Jacquet un mese prima, quando ha accettato l'idea che Stephane Meunier girasse durante la Coppa del Mondo quel che sarebbe diventato il documentario “Les Yeux dans les Bleus. “Questo sarà un film per la storia, perché vinceremo il Mondiale”. Sì, vinceranno il Mondiale. Dopo i due gol di Zidane, l'ultimo sigillo è il suo, che di gol ne ha segnati 6 in 63 partite in nazionale. Ma quella coppa che ha alzato Zidane è la cosa più dolce. Anche se, ora che si è scoperto il piccolo trucco per evitare che Francia e Brasile si affrontassero prima della finale, quella dolcezza la sta un po' perdendo. “A volte mi chiedo”, ha confessato in un documentario per Arte, “l'abbiamo vinta davvero la Coppa del Mondo 1998 o siamo stati solo delle marionette?”. Tutti quelli che vent'anni fa affollavano Place de la Liberation a Saint-Nicolas d’Aliermont (Seine-Maritime) per vederlo affacciarsi dal balcone dell'hotel, la risposta la conoscono.

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Exit

“Lo sai che aveva la cura. Lo sai che è andato alla deriva”. Lo sanno tutti, si è perso in mondovisione per una provocazione. Vuoi la mia maglia? Preferisco tua sorella, con l'aggiunta di un chiaro riferimento alla sua, di lei, disponibilità e apertura agli incontri occasionali. Da una parte un franco-algerino con la maglia numero 10 all'ultima partita della carriera che tutti chiamano Zizou. Dall'altro, un marcatore forte di testa e svelto di lingua, quel Marco figlio d'arte che al Mondiale del 2006 titolare lo è diventato per necessità e simbolo della sua nazionale per merito. Il campione con la dieci “che era solito stare sveglio per guidare i suoi sogni” e che una coppa del mondo l'ha già vinta peraltro con due gol suoi in finale, “vuole crederci” ancora. Ma “la testa gli diventa pesante, mentre attraversa il terreno (di gioco) come un uomo dal cuore spezzato”. Dentro il bianco di quella maglia c'è un uomo che vede nero, che vede “le stelle brillare come artigli nella notte”. Ha visto rosso, prima, il cartellino che l'arbitro Elizondo gli ha sollevato davanti agli occhi, anche se l'episodio, lo dirà anni dopo, l'ha visto il quarto uomo che gli ha parlato nell'auricolare. “Ma il cuore continua a battere”.

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Con o senza di te

Vedeva gli occhi dei portieri “diventare di pietra”, sentiva “la spina pungere nel loro fianco”. Un cambio di mano, un segno del destino. Li puntava, li osservava e non doveva nemmeno pensare. Lo sapeva che avrebbe segnato. Elementare, Fontaine. Segnare è naturale, se non ti fai troppe domande. Le domande le faranno a lui, dopo i quattro gol alla Germania in 90′ nella finale per il terzo posto. I tedeschi gli continueranno a mandare lettere per anni. Vogliono sapere come si fa a farne quattro alla difesa della Mannschaft in una partita sola.

“In mezzo alla tempesta, abbiamo raggiunto la riva”, lui che potendo passerebbe le giornate a dormire e a pescare. Un giornale svedese gli ha anche dato una simbolica carabina in quanto “cecchino” principale del Mondiale 1958. Dieci anni dopo gli chiederanno anche di diventare presidente di un movimento, che durerà lo spazio di una settimana, e occuperà il palazzo della federazione francese per chiedere “le football aux fottballeurs”, il calcio ai calciatori. Di sicuro può vivere anche senza la coppa.

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Non ho trovato quel che stavo cercando

Ha “attraversato le montagne” e corso per i campi di mezzo mondo solo per essere con lei. Ha “corso, strisciato, scalato i muri delle città”. Ha concentrato le emozioni di una vita in una sera, a Siviglia l'8 luglio 1982. “Centoventi minuti così non si possono immaginare in nessun romanzo, in nessun film” dirà Le Roi, Michel Platini. È la sua partita migliore, racconta, la sconfitta più dura, la fine di un sogno. C'è chi grida al complotto, come Marius Trésor: perché mettere un arbitro olandese se noi avevamo eliminato l'Olanda? Ma un olandese potrebbe davvero favorire un tedesco? Di sicuro, non ha nemmeno ammonito Schumacher che travolge Battiston, lo lascia a terra svenuto e si mette a palleggiare, spalle al dramma. Il quadrato magico, il centrocampo che incanta il mondo con Fernandez, Tigana, Giresse e Platini, è di nuovo in lacrime in Messico nel 1086. Perché il calcio è giocare undici contro undici e alla fine vincono i tedeschi. Platini, da calciatore prima e presidente poi, ha “baciato bocche di miele”, “parlato con la lingua degli angeli e stretto le mani del diavolo”. Ma quel che stava cercando, quella coppa che ha sognato anche da ct senza nemmeno qualificarsi a Italia '90, non l'ha ancora trovato.

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