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Gli album dei Mondiali: Inghilterra, Londra chiama

L’Inghilterra del calcio ha abbandonato l’illusione della propria grandezza. Resta il ricordo di Wembley, della tripletta di Hurst, del trionfo nel 1966. Era un tempo inquieto, come questi mesi di Brexit e incertezze, Tempi buoni per i Clash, per riscoprire uno dei dieci migliori album di sempre. E accompagnare così i momenti chiave dei Tre Leoni ai Mondiali.
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Orizzonti cupi, tra Brexit e paure. Tempi di certezze che lasciano il posto alle domande senza risposta. Sono tempi per energie ribelli in Inghilterra, e per una nazionale che incarna l'idea moderna dell'essere inglesi. Un'idea, ha scritto Simon Kuper su New Statesman, racchiusa nel volto aperto di Gareth Southgate. È l'Inghilterra post-imperiale che oggi “è venuta a patti con l'idea della sconfitta”. Perché è difficile preservare l'illusione della propria grandezza quando la bacheca e il campo raccontano un'altra verità. E in bacheca resta la memoria della Coppa Rimet di Wembley e di Pickles, di Hurst, del gol che forse non lo era e che dio salvi la regina. Erano tempi di sfide incerte e decisive anche quelli. E come allora, come nella stagione del punk e dei Clash, London calling. Londra chiama.

London calling

Londra chiama, annunciava Radio Londra. “Londra chiama le città lontane. Ora la guerra è dichiarata e la battaglia sta per iniziare”. Valeva nel 1945 e nell'estate del 1966, il periodo più difficile da allora. I laburisti hanno vinto le elezioni, ma la sterlina è sotto pressione, la bilancia dei pagamenti in rosso, gli scioperi degli operai accompagnano le misure drastiche del governo, aumentano le pressioni per le sanzioni contro la Rhodesia. Ma in Germania, alla vigilia della finale mondiale, una vignetta mostra l'undici tedesco in marcia nei carri armati sotto la scritta Rivincita per lo Jutland, mentre gli inglesi si preparano a difendersi con le baionette. Molti inglesi vedrebbero una sconfitta “come la prova definitiva del nostro collasso finanziario e morale”, parola di William Davis sul Guardian.

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Londra chiama, ora non badate a noi. (…) Io non voglio gridare. Ma mentre parliamo ti ho visto che guardavi altrove”, nelle tv ancora in bianco e nero che raccontano la finale, i giocatori che vanno allo stadio in bus o in metro. Raccontano un giorno di attese, di strade deserte, pub pieni e di working-class heroes. "Londra chiama, sì, e c'ero anche io, e sapete che hanno detto? Beh, che in parte era vero”. Era vero che il momento più importante della storia del calcio inglese è arrivato alle 5.15 del pomeriggio. Era vero che la polizia davanti al Royal Gardens Hotel si spalanca mentre 6 mila tifosi abbracciano gli eroi. Era vero che ai cavalieri hanno fatto l'impresa presentano una torta a forma di campo da calcio. “Londra chiama al momento cruciale”, proprio mentre a Berlino un 23enne uccideva la sua matrigna. La colpa? Non sopportava che non andasse a lavorare per stare a casa a guardare le partite dei Mondiali. “E dopo tutto questo, non vuoi farmi un sorriso? Non mi sono mai sentito così…

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Bombe di Spagna

Gli spagnoli cantano in Andalusia, lì dove sparavano nel '39”. Bombe di Spagna, come le bombe di luglio del 1982 a Hyde Park e Regent's Park. Muoiono 11 soldati e 7 cavalli. Sono passate due settimane dalle ventiquattro ore che separano la fine della favola dell'Irlanda del Nord e Norman Whiteside dall'ultima delusione inglese al Mundial. Nessun “foro sulle mura del cimitero” a Madrid, solo il bisogno della nazionale di Greenwood di segnare due gol contro le Furie Rosse. “Yo te quiero, te quiero infinito”. I combattenti per la libertà allora morivano sulle colline, con le bandiere rosse e le bandiere nere. Su altri prati, i Tre Leoni biancovestiti non muoiono ma affondano. Greenwood, avvocato del bel gioco, arrivato per stabilizzare dopo gli anni inquieti di Don Revie, mette Brooking e Keegan. Il suo colpo di testa largo è l'ultimo fiore non colto. “L'Inghilterra è uscita dal Mondiale perché non è stata abbastanza forte da rimanerci. I cinque anni di gestione di Ron Greenwood finiscono su una nota di delusione ma non di disonore perché la sua squadra ha mostrato molta della disciplina e dell'organizzazione che ha fatto approdare l'Inghilterra fin qui”. Nella sintesi del Guardian, il desiderio in fondo al cuore della nazione e un sogno non sognato. “Te quiero, mi corazon”.

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Il giusto profilo

Dove l'ho già visto? Nel Fiume rosso? O in Un posto al sole? In Misfits o Da qui all'eternità?”. Buono e cattivo, Gascoigne lo sciocco amabile, “stupido come un pennello” come lo chiamava Bobby Robson, è il grande pennello dei Tre Leoni. E' il giocatore che più di tutti può ispirare la prima vittoria dell'Inghilterra contro la Germania in un grande torneo dalla finale mondiale del 1966. “Se Gascoigne inizia a saltare in dribbling Kohler e Buchwald, allora il libero Augenthaler sarà sotto pressione per la prima volta”. Passa i primi minuti a dare concretezza all'augurio di David Lacey. All'inizio è dominante. I tedeschi cercano di chiudere ma non sanno bene cosa fare.

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Al Dunston Excelsior, il club dove Gazza si ferma a bere quando torna a casa, suo padre e suo fratello guardano la partita. “E tutti dicono: va tutto bene? E tutti dicono: com'è davvero? E tutti dicono: di sicuro sembra divertente”. Il padre, che ha sofferto per un'emorragia cerebrale quando Paul aveva nove anni, affonda nella sedia che occcupa di solito. Impreca per l'ammonizione che potrebbe togliere a Gascoigne la finale. Ha lo sguardo rabbioso e rassegnato dopo i rigori, perché quegli undici metri segnano ancora la distanza tra il trionfo e la delusione. E i compagni, per tenergli compagnia, intonano You'll never walk alone.

Non vado a fondo

Se è vero un uomo ricco conduce una vita triste, allora che dovrebbero fare i poveri con la loro?”. Lo so, quel giorno ero l'immagine della ricchezza che diventa tristezza. “Mi sono fatto vedere, sono cresciuto. E non sono caduto”. Facevo roteare il mio pallone, un giocoliere che come i clown nascondono la tensione dietro una maschera di noncuranza. “Mi hanno fischiato e deriso in strane strade, quando sentivo i nervi a fior di pelle e lottavo contro la mia paura”. Affrontare l'Inghilterra, diceva Batistuta, non è più come ai tempi di Maradona. Dobbiamo dare valori positivi con lo sport, altro che guerra delle Falklands. La gente mi guardava, avrebbero voluto dirmi di fermarmi, avrebbero voluto dire a Hoddle che l'ultimo rigore andava fatto tirare a uno che segna gol per vivere. Non a uno come me, che non ne avevo tirato mai nemmeno uno. È una roulette russa, uno di quei giorni in cui “il dolore va giù, sempre più giù”. È un giorno di illusione, dopo il gol di Owen, di depressione e il rosso a Beckham non c'entra. Al Geoffrey Guichard, dipende tutto da me. Se sbaglio siamo fuori. Tiro al centro, a mezza altezza, vedo Roa che si butta dalla parte giusta, vedo piangere Owen, l'Argentina che festeggia e addio Mondiale 1998. “Depressione, sì. Ma ci sarà un modo per risalire, per scalare il grattacielo (del destino) un piano alla volta”. Mi chiamo Batty, David Batty, e mi dico “sei il più duro di tutti. E non saresti qui se non fossi passato per le strade più difficili”.

La morte o la gloria

La morte o la gloria diventano solo un'altra storia”. Voleva una squadra che giocasse con l'orgoglio e la gloria, gli è rimasta la morte sportiva di ritorno da Bafokeng. Solo una vittoria contro la Slovenia, un indice di prestazioni che avrebbe dovuto aiutare a sceglire la formazione ideale, un golfo infangato di scelte caotiche. Il Mondiale nella Rainbow Nation inizia male, per l'errore di un portiere che porta nel cognome il colore della speranza, e peggiora con John Terry e la presunta insurrezione contro un 4-4-2 arcaico in cui ormai non credeva più nessuno. Capello, che al bar sport di Pieris ricordano ancora come El Tato, il Bambino, il più piccolo della compagnia ma da subito con una marcia in più, si è perso tra scarne conversazioni, poche traduzioni e troppi consiglieri. “Non c'è più nessuno show. Nessun altro pensa che adesso sia solo morte o gloria? Di sicuro suonare il blues dei re sembra più bello”.

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