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Gli album dei Mondiali: Brasile, il calcio a modo loro come danza e nostalgia

Terza puntata della serie Gli album dei Mondiali. Dopo l’Argentina e l’Inghilterra, raccontiamo in musica il Brasile. Una nazione che nel calcio si specchia e attraverso il gioco più bello del mondo si definisce. La nazionale verdeoro trasmette passione e nostalgia, bellezza e contraddizioni. Gioca, vince e perde a modo suo.
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I brasiliani, scriveva Gilberto Freyre, giocano a calcio come se fosse una danza. Un ballo di passioni e contraddizioni, di emozioni e nostalgia al curaçao. Per raccontarlo e accompagnare la squadra che racconta i colori del calcio, serve The Voice, il crooner che ha amato le donne e come con le donne col suo pubblico è stato sincero. Per raccontare di un popolo che si misura attraverso il pallone, serve la voce di Frank Sinatra, di chi ha vissuto e cantato a modo suo.

Guarda che succede

“Lascia che qualcuno creda in te, lascia che qualcuno ti tocchi e vediamo che succede”. Ha creduto e toccato Tereza Borba, figlia adottiva di Moacir Barbosa, l'uomo che fece piangere il Brasile. Lo fermavano ancora nei supermercati, decenni dopo il Maracanaço, e ancora lo additavano. Era il portiere che lasciò passare il pallone di Ghiggia, che accanto al suo piede rimaneva incollato. Non lo vide che entrava, sentì il silenzio gelato dello stadio in cui, quasi per espiare quella colpa, continuerà a lavorare per tutta la vita.

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“Lascia che qualcuno ti guardi negli occhi e veda nel tuo cuore”. Avrà detto e sicuramente pensato qualcosa di simile Tereza, quando ha deciso di abbandonare il suo ruolo di infermiera e diventare la custode della memoria del miglior portiere del Mondiale 1950, che però in nazionale giocò solo un'altra partita dopo il 1950. In un Paese senza preparazione psicologica alla sconfitta, il lutto nazionale ha cercato capri espiatori neri, Bigode, Juvenal e Barbosa. Tredici anni dopo, ha desiderato la purificazione e l'oblio con la catarsi del fuoco. Prepara un barbecue per gli amici, racconta Roberto Muylaert, e alimenta le fiamme con i pali del Maracanà.

Dieci giorni prima della sua morte, va a trovarlo l'amico Adalberto. Era stato un portiere del Botafogo, rivale di Barbosa simbolo del Vasco de Gama. Il suo vecchio club l'ha aiutato a pagare l'affitto della sua casa dopo il più grande dolore della vita, la morte per un cancro alle ossa della moglie Clotilde. L'ha omaggiato con un monumento per il titolo al Sudamericano del 1948. Ma non servirà a dimenticare.

Non gli basta l'ammirazione di Getulio Vargas, non gli basta essere uno dei migliori portieri della sua generazione. “Ha indurito il cuore, forse è solo la paura che si rompa di nuovo” ad ogni nuova memoria di quel pomeriggio di dolore. Adalberto lo trova che beve e piange, e ancora ripensa a quel giorno. “In campo non c'ero solo io, eravamo in undici” ripete ancora. Quel giorno il Brasile era un re pronto a ricevere la corona, ma la storia moderna di una nazione che si misura in cicli quadriennali e coppe del mondo comincia con una tragedia. “Lascia che qualcuno ti dia il suo cuore, qualcuno a cui di te importi come a me” potrebbe avergli detto Tereza in quei giorni, in quegli ultimi tre anni dopo la morte di Clotilde. “Ti piacerà quello che succederà”. Ma quel tempo è passato da tanto.

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Non è vero?

Sessantaquattro anni e 34 suicidi dopo, i presagi si riaffacciano. Cade un viadotto a Belo Horizonte, cade una nazione a Belo Horizonte, che di bello ormai ha solo il nome. “Stavolta li abbiamo messi quasi insieme i pezzi, non è vero?”. Se lo chiedono i giocatori spaesati, se lo domanda David Luiz quando Ozil gli si avvicina per scusarsi, se lo chiede chiunque assista al 7-1 della Germania. “Stavolta abbiamo quasi dato un senso a tutto questo, non è vero?”. E forse un senso c'è davvero, per la Seleçao che in casa, amichevoli a parte, non perdeva da 39 anni, e anche allora si giocava a Belo Horizonte. Ricorsi e presagi, in una nazione col complesso dei cani randagi, scrive Alex Bellos in Futebol. “Avevo la risposta giusta nelle mani” sembra ammettere Felipe Scolari, troppo testardo per cambiare strada e principi, “l'ho toccata ed è svanita come sabbia”. Ha sognato la luna, ma l'orizzonte ha regalato solo il gol numero 2000 nella storia della Mannschaft. “Stavolta però la dura salita l'abbiam percorsa quasi tutta, ce l'abbiamo quasi fatta stavolta”. Quasi. Sarà per questo che la porta dello stadio della disfatta è oggi al Museo del calcio di Dortmund.

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A modo mio

“Amico mio, te lo dico chiaro. Di una cosa sono sicuro, ho vissuto una vita piena, ho attraversato tutte le strade del mondo, e soprattutto l'ho fatto a modo mio”. Con quel nome diventato brand, Pelè, che non significa niente ma si può ripetere sempre uguale in tutte le lingue del mondo, e l'amico sempre attaccato al piede. Un amico che appare e scompare, sopra la testa del difensore svedese che vorrebbe applaudirmi dopo il quinto gol della finale del '58. Un amico per cui i brasiliani hanno inventato almeno una trentina di sinonimi: è l'amico, è Leonor, è il Guiomar, l'animaletto, l'infedele, il demonio. Perfino la mortadella, la Margarida, la Maricota. È per lui che volavo a sconfiggere la gravità sulla testa di Facchetti mentre il sole dell'Azteca ci illuminava e la tv a colori ci trasformava nella scintillante bellezza del calcio.

“Ho pochi rimpianti, troppo pochi per menzionarli”. Non ho segnato cinque gol di testa in una stessa partita come mio padre, nonho mai giocato a Wembley, ma “ho fatto quello che dovevo fare (…). Ho programmato ogni percorso, ogni tappa, e l'ho fatto a modo mio”. Ho portato il calcio in America, ho fermato una guerra fra Nigeria e Biafra e perfino avuto un ruolo nella lotta per l'indipendenza della Martinica.

“Ho riso e pianto”, ho saltato quasi tutto un Mondiale per infortunio ma non ho mai regalato un minuto del mio tempo. “Adesso trovo quasi divertente che ho fatto tutto questo, e posso dire, in maniera non proprio riservata, a modo mio”.

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Un giorno nella vita di un giullare

E' “un giorno triste nella vita di un giullare, un giorno lungo e triste”. Garrincha, l'uomo che regalava allegria, che accendeva il fuoco per una squadra che si chiamava appunto Accendi il fuoco, Botafogo, deve saltare la finale del Mondiale 1962. Ha segnato due gol al Cile, l'hanno colpito in tutti i modi ma reagisce. L'arbitro peruviano Yamasaki, lo stesso che arbitrerà la partita del secolo all'Azteca, lo espelle. Gli tirano anche un sasso mentre sta uscendo dal campo. Si ferma in spogliatoio, come davanti alla porta di una delle sue tante donne. “Mané nato a Pau Grande” recitava il verso di una canzone censurato. Suonava troppo simile a “Mané nato con un pau grande”, insomma una questione di centimetri, di verità meno apparenti e più indecenti. Ma sotto l'equatore, canta Chico Buarque, non c'è peccato. E non è solo geografia. Non si sente a casa, “torna nella stanza e nel buio piange lacrime di addio”. Ma il Brasile, col permesso di Joao Havelange, allora presidente della Federcalcio brasiliana e non ancora capo della FIFA, si appella. Si muovono il Primo Ministro Neves e il governo peruviano. Il referto di Yamasaki è neutro. Bisogna parlare col guardalinee, Esteban Marino, che però a Santiago non si presenta alla sede del comitato disciplinare della FIFA. Per il giornalista David Yallop è in albergo con un paio di delegati brasiliani. Risultato? La commissione disciplinare non può accertare i fatti ma cancella la squalifica. Garrincha, con 39 di febbre, imbottito di aspirine, è l'eroe della finale. “Così dovrebbe essere ogni giorno nella vita di un giullare”.

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Per una volta nella vita

Ha “avuto bisogno di qualcuno per tutta la vita”. Per una volta, però, Ronaldo “non (ha) paura di andare dove la vita (lo) guida. In qualche modo sa che (dovrà) essere forte”. Può toccare quel che il cuore ha solo sognato. Col taglio di capelli più discutibile nella storia del calcio moderno, scrive la sua storia di ritorno e redenzione nel 2002. La finale contro la Germania è il primo scontro fra le due nazionali in un Mondiale. Quella finale è solo sua. “Nemmeno il sesso è così appagante” dice. “Non che non sia grandioso, ma la coppa del Mondo la giochi ogni quattro anni, il sesso lo fai con molta più regolarità”.

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“Per una volta nella vita, non lascerà che il dolore (lo) ferisca, come in passato”, come nel pomeriggio di Saint-Denis in cui il giallo delle maglie che raccontano il bello del calcio diventano il colore del più grande mistero irrisolto del pallone. Tutti sanno tutto della fine, in mondovisione, nessuno può parlare dell'inizio, nei pochi metri di una stanza al all'hotel Grand Romaine di Lesigny. Gerard Saillant, il chirurgo che l'ha operato due volte, si commuove. “Il suo successo insegna a tutti quelli che hanno subito un infortunio, una lesione, atleti e non, a lottare. Insegna che ce la si può sempre fare”. Per una volta, Ronaldo ha “qualcosa che, lo (sa), non (lo) tradirà. E non (è) più solo”

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