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Neymar, il Brasile e l’insostenibile leggerezza dell’essere al Mondiale 2014

Neymar è il simbolo del calcio spettacolo, l’arma in più di Scolari. Di lui Pelè ha detto: “Può diventare più forte di me”. La storia di un campione partito dal nulla e della maglia verdeoro, icona senza pari di bel gioco. Partì tutto dal Maracanazo e da un illustratore che tifava per l’Uruguay.
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Calca de veludo ou bunda de fora. Secondo questo detto brasiliano, un uomo ha solo due scelte nella vita: può vivere con i pantaloni di velluto o col sedere all'aria. È l'essenza del Paese del carnevale e delle favelas che affacciano sulla spiaggia di Copacabana. Un Paese che affida le speranze di successo e riscatto a un campione bambino che ha iniziato col sedere per aria e grazie al calcio ha bruciato le tappe verso i suoi pantaloni di velluto. Senza il calcio Neymar, l'icona del joga bonito, sarebbe probabilmente disoccupato, senza un posto e senza uno scopo nella vita.

La ricerca della felicità – Anche suo padre, Neymar sr., ha cercato la sua strada per il successo attraverso il calcio, ma senza troppo successo. Giocava a Mogi das Cruzes, una cittadina industriale 40 chilometri a est di Sao Paulo quando è nato Neymar jr: viene alla luce il 5 febbraio, come Cristiano Ronaldo, Carlos Tevez e Paolo Maldini. Dopo aver vinto il campionato statale del Mato grosso nel 1997, con l'Operario Futebol clube di Varzea Grande, Neymar sr riporta la famiglia (la moglie Nadine, Neymar jr e la figlia appena nata, Raffaella Santos) nella sua città natale, a Sao Vicente. Fa tre lavori, l'impiegato comunale, il muratore e il meccanico, la moglie trova un posto da cuoca in un centro per bambini. Neymar studia in una scuola pubblica e cresce giocando a futsal, versione del calcetto che si disputa su un campo da basket, con un pallone pesante, in infinite partite 4 contro 4. Lo nota l'allenatore dell' Associação Atlética Portuguesa Santista, che gli dà un posto in squadra e convince il preside di una scuola privata a concedergli una borsa di studio. Le sue qualità attirano una leggenda del calcio brasiliano, Zito, che ha vinto due mondiali e segnato 57 reti nel Santos. Neymar rifiuta le sirene che arrivano dal Real Madrid e finisce proprio nella squadra che fu di Pelè con cui nel 2004, a 12 anni, firma un contratto da quasi 300 mila euro. Nel settore tecnico lavora Edinho, il figlio di O'Rey, che arbitrava le partitelle di allenamento: «Neymar ha la fissa di procurarsi calci di punizione» diceva. E non l'ha ancora persa.

Nuovo idolo – Il Santos gli chiede di sedersi, evidentemente non più col sedere all'aria, sul trono di «idolo nazionale rimasto vacante dai tempi della morte di Ayrton Senna». E Neymar li accontenta. Lascia la scuola a 16 anni, per debuttare da professionista. Si è sempre applicato nello studio, ha avuto solo problemi con Mateus, il maestro di educazione fisica, perché invece di fare pratica con i compagni di classe si allenava col Santos. Debutta in prima squadra il 7 marzo 2009; il suo allenatore, Vanderlei Luxemburgo, lo chiama “un filetto di farfalla”. Vince subito un campionato paulista e una Coppa del Brasile (2010), poi ottiene altri due scudetti statali e una Copa Libertadores. A 19 anni diventa padre, da una relazione con la 17enne Carolina Nogueira Dantas, con cui interrompe ogni rapporto, pur continuando a prendersi cura del piccolo Davi Lucca. Festeggia il 100mo gol al Santos nel giorno del suo 20 compleanno. Con 136 reti in 225 partite, Neymar è il secondo miglior cannoniere della squadra dopo Pelè. E nel giorno del centenario della squadra, O'Rey non usa mezze parole: «Neymar è migliore di Messi e può diventare più forte di me».

Grandi numeri – Oggi Neymar ha segnato 30 gol in 47 partite in nazionale, guadagna 7 milioni a stagione al Barcellona (che l'ha pagato 57 milioni), ha partecipato a telenovelas, è diventato un fumetto e ha 11 sponsor. Ma quando va in vacanza, continua a giocare infinite partitelle in strada, come quando era bambino. Perché, come recita un altro proverbio brasiliano, “puoi togliere un uomo dalla favela, ma non puoi togliere la favela da dentro a quell’uomo”.

Una maglia, un'icona – Nessun Paese come il Brasile ha saputo trasfondere la sua identità nello stile di gioco della sua nazionale. Nessun Paese come il Brasile si identifica e si specchia tanto nel calcio. E non c'è icona del calcio come divertimento della maglia verdeoro. Una maglia in cui c'è il trionfo e la tragedia, vissuti con gli eccessi nella nazione dell'euforia dei disperati, del carnevale e della saudade. Una maglia che unisce un popolo polifonico più di ogni altra. E anche chi protestava durante la Confederations Cup e cantava “scusa Neymar, stavolta non tiferemo per te”, poi si è sciolto vedendolo domare in finale l'imbattibile Spagna che non perdeva da 29 partite. Il Brasile, però, non ha sempre giocato con i colori della bandiera. Fino al 1950, la prima divisa era bianca con il colletto blu. È la più grande tragedia sportiva della nazione, il Maracanazo, a cambiare la storia. Quando l'Uruguay toglie al Brasile il titolo mondiale del 1950 davanti ai 200 mila spettatori del Maracanà, si registrano 34 suicidi e 56 morti per arresto cardiaco. Dopo il gol di Ghiggia, che completa la rimonta sorprendendolo sul primo palo, il portiere Barbosa subisce un'ostracismo totale. È uno dei cinque migliori del mondo in quel momento, ma non giocherà più in nazionale. E dopo di lui non ci saranno numeri 1 di colore fino a Dida. Una mamma, vedendolo per strada disse al figlio indicandolo: “Ecco l'uomo che ha fatto piangere 200 milioni di brasiliani”. Tabarè Cardoso cantava: “Bruciate Barbosa, il portiere del Brasile; la condanna del Maracanà deve pagare con la vita”. Nel '93 non lo faranno nemmeno entrare nello stadio dove si stava per giocare un'amichevole celebrativa. «La pena massima per un omicidio è di 30 anni» dice a Eduardo Galeano, «io sono 43 anni che pago una pena per un crimine che non ho commesso». Da quel giorno Ary Barroso, il radiocronista della nazionale che celebrava i gol suonando l'armonica e ha composto la celeberrima Aquarela do Brasil, non commenterà più il calcio. Da quel giorno, il Brasile cambierà maglia. Un quotidiano lancia un concorso per trovare una maglia più patriottica in vista dei Mondiali del 1954. Vince Aldyr Garcia Schlee, un illustratore di 19 anni che vive a Pelotas ma non ama troppo il calcio, e se proprio deve tifare per una nazionale supporta proprio l'Uruguay, perché è cresciuto a Jaguarão, una piccola città di frontiera, di quelle dove passano i cuori d'avventura. Nel primo mondiale con la nuova maglia, i brasiliani cedono nei quarti alla scintillante Ungheria, all'ultima grande recita prima della rivolta di Budapest e della diaspora dei campioni. Il primo trionfo, nel 1958, arriva con un altra maglia perché la Svezia, finalista e padrona di casa, è una delle poche squadre con gli stessi colori. Finalmente, nel '62, il Brasile può alzare la Coppa Rimet nei suoi colori. Due anni dopo, una giunta militare prende il potere dopo un violento colpo di stato. Aldyr, che nel frattempo si è trasferito a Rio, deve discutere una tesi di dottorato sull'auto-determinazione nazionale, ma viene imprigionato tre volte per attività filo-comuniste, gli viene impedito di andare a studiare in Olanda e la tesi viene sequestrata fino al 1977. In quegli anni la maglia verdeoro diventa davvero l'icona del bel gioco. Il mondo la scopre nel 1970, i primi Mondiali trasmessi a colori. E guarda caso, in semifinale, il Brasile batte proprio l'Uruguay: è il primo scontro in un campionato del mondo dal Maracanazo.

Superbia ed equilibrio – Nel Paese della leggerezza e dell'instabilità, dopo la superbia pagata cara contro l'Italia degli abatini al Mundial di Spagna, ha vinto chi ha portato equilibrio nella nazionale degli eccessi. Ce l'ha fatta Scolari in Giappone e Corea e prima di lui Carlos Alberto Parreira a Pasadena, nella finale sospesa tra la gioia e il lutto per la morte di Senna. Parreira, primo allenatore ad aver preso parte a sei edizioni dei Mondiali, e secondo dopo Milutinovic a farlo con cinque nazionali diverse (Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Brasile, Arabia Saudita e Sudafrica) ha gelato 180 milioni di pazzi per il calcio che hanno ascoltato da O Professore l'unica lezione che non volevano proprio imparare. «Jogar bonito è ganhar», «giocar bene è vincere. Tutti giocano per il risultato, non vedo un' altra maniera di fare calcio. Neanche per il Brasile». Una lezione che l'ha reso inviso ai tifosi, anche quando è stato richiamato dopo l'era Scolari vincendo una Confederations Cup e una Coppa America. Una lezione che, però, nel Brasile di oggi, stretto tra timori per la sicurezza e inquietudini sociali, a Scolari potrebbe fare benissimo.

I “capitani” di Scolari – A fine aprile, Scolari ha annuncia i primi otto nomi dei 23 che cercheranno lo storico quinto trionfo mondiale: Julio Cesar, David Luiz, Ramires, Willian, Oscar, Paulinho, Thiago Silva e Fred. Il ct ha anticipato che «i miei capitani saranno Thiago Silva, David Luiz, Julio Cesar e Fred, sono quelli con cui ho parlato di più durante le partite che abbiamo fatto. Nel 2002 i miei uomini di fiducia erano Cafu, Roberto Carlos, Rivaldo, Ronaldo e Roque Junior».

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