Brasile 2014: Pjanic, Dzeko e l’orgoglio della Bosnia al Mondiale
La prima neve d'inverno copre le ferite di Sarajevo. È il 30 novembre 1995. Nove giorni prima i grandi del mondo hanno firmato a Dayton, in Ohio, l'accordo che mette fine alla guerra di Jugoslavia. La neve cade sui monti che hanno ospitato le discese dei Giochi del 1984, le uniche Olimpiadi invernali ospitate in un Paese dell'Est, per giunta senza boicottaggi, che hanno dato rifugio ai cecchini serbo-bosniaci durante il conflitto. Cade su una città ancora sanguinante, che sta cercando di rinascere attraverso il pallone. È stata messa su una federazione, che la Fifa accetta solo come ospite, e un'improvvisata nazionale, affidata a Fuad Muzurovic. L'incontro non è riconosciuto per cui non è facile trovare un'avversaria, alla fine si offre l'Albania, e i club non sono disposti a lasciar partire i giocatori. La nazionale si ritrova a Zagabria, il viaggio più veloce attraverso la Serbia è fuori discussione; per l'amichevole di Tirana si presentano in otto per cui vengono chiamati anche calciatori ritirati. Non hanno nemmeno le maglie, le comprano in un negozio di Zagabria. A Tirana giocano Ismir Pintol, Vedin Musić (che giocherà a Como, Modena, Torino, Treviso), Ibrahim Duro, Muhamed Konjić (che sarà eletto giocatore dell'anno al Coventry nel 2003), Senad Begić, Nedžad Fazlagić, Esmir Džafić, Enes Demirović, Husref Musemić, Asim Hrnjić e Almir Turković. La Bosnia perde 2-0, ma il risultato davvero non conta.
I Dragoni nella storia – C'è la neve anche 18 anni dopo, ma stavolta copre una Sarajevo diversa, in cui i centri commerciali hanno sostituito le rovine. La neve cade su una nazione in festa perché Vedad Ibisević ha segnato un gol storico alla Lituania. È la rete che qualifica la Bosnia ai Mondiali del Brasile. Quella sera 50 mila persone scendono in strada a Sarajevo per festeggiare la miglior generazione del calcio bosniaco. Affidati a Safet Sušić, votato miglior calciatore di sempre del Paris Saint-Germain, i Dragoni hanno dominato il girone vincendo tutte le partite di qualificazione tranne una con una filosofia al limite dell'ingenuità: segnare un gol più dell'avversario. È una nazionale multi-etnica, la prova che la cooperazione può esistere e può dare risultati. Basta guardare il primo gol al Liechtenstein dell'11 ottobre. Zvjezdan Misimović, il giocatore con più presenze in nazionale, che è di etnia serba, lancia Edin Džeko, di provenienza bosniaca, che scatta e segna: non a caso è il miglior goleador della nazionale. Sono la coppia d'attacco che ha fatto volare il Wolfsburg fino allo scudetto del 2009. In porta gioca Asmir Begović, bosniaco cresciuto in Canada, baluardo dello Stoke City in Premier League. Il capitano Emir Spahić, bosniaco vissuto a lungo in Croazia; Boris Pandza, di etnia croata; e Sasa Papac, che è di etnia serba, compongono una linea difensiva che ha subito solo sei gol. Ed è impossibile pensare che il bosniaco Miralem Pjanić possa rifiutare un passaggio al serbo Miroslav Stevanović per via di quegli eventi che entrambi hanno vissuto da bambini e sui quali non avevano alcun controllo. Certo, questa nazionale non rispecchia la società della Bosnia di oggi, una nazione che ha ancora il 44% di disoccupazione e un reddito medio mensile che non supera i 500 euro. Però questa nazionale così facile da apprezzare è un'epifania, è l'immagine di quello che la Bosnia potrebbe diventare, alle giuste condizioni.
Dai turchi ai danubiani – Per quattro secoli, dal 1461, Sarajevo è la capitale multiculturale di un tollerante dominio dell'impero ottomano dove convivono cattolici, ortodossi ed ebrei sefarditi cacciati dalla Spagna dopo la Reconquista. Dopo la guerra russo-turca del 1877, la Bosnia-Erzegovina entra nell'Impero Austro-Ungarico: un passaggio che cambia per sempre il suo destino calcistico. La scuola danubiana è la migliore del mondo fino alla prima metà degli anni Cinquanta. L'Austria di Sindelar e di Hugo Meisl, grande amico di Vittorio Pozzo, incanta il mondo fino ai Mondiali del '34 e all'Anschluss. Gli ungheresi, che hanno imparato il passing game, il gioco di passaggi, dagli scozzesi, poi lo insegnano in giro per l'Europa e non solo. Lo portano in Italia, con Arpad Weisz che prima di morire ad Auschwitz scopre Bernardini e Meazza e pensa il calcio moderno a Bologna, dove Felsner costruirà la squadra che tremare il mondo fa. In Ungheria studia Jimmy Hogan, l'inglese che i britannici considerano un traditore, ha appreso tutto da Gusztáv Sebes, l'allenatore dei Magici Magiari che hanno scioccato 6-3 gli inglesi a Wembley nel '53, prima di andare in Olanda a pensare il Calcio Totale vent'anni prima dell'Ajax, di Rinus Michels e della nazionale migliore di sempre a non aver mai vinto un mondiale. Lo portano fino in Brasile dove Bela Guttman, quello della maledizione del Benfica, negli anni '50 allena il Sao Paulo. Il 4-2-4 con cui Zagallo allinea Garrincha-Didì-Vavà-Pelè ai Mondiali di Svezia '58 è in gran parte opera sua.
Il calcio in Bosnia – Le prime squadre in Bosnia sono lo specchio dei gruppi etnico-religiosi. Nel 1908 un gruppo di studenti serbo-ortodossi fondano il Dacki Sportsi Klub (DSK), che diventerà l’FK Slavjia, cinque anni dopo la comunità croata si aggrega intorno alla SASK. Fa eccezione lo Zeljieznicar, la squadra dei ferrovieri di Sarajevo. Il calcio diventa presto il moltiplicatore delle tensioni nazionalistiche in Jugoslavia. I serbi riescono a spostare il quartier generale della federcalcio jugoslava, la JNS (Jugoslovenski nogometni savez), da Zagabria a Belgrado, e i croati per reazione impediscono ai loro giocatori di partecipare con la Jugoslavia ai Mondiali del 1930. Il nazionalismo croato, anche nei gruppi che vivono in Bosnia, trova la sua massima e più visibile espressione pubblica negli stadi. Dopo la seconda guerra mondiale e la liberazione di Sarajevo, i Partigiani di Tito, il segretario generale del Partito comunista jugoslavo, ottengono il controllo della Bosnia. I musulmani bosniaci, inizialmente contrari all'ideologia comunista, finiscono per accettarlo: è il male minore, è sempre meglio che essere assorbiti nella Serbia dei nazionalisti cetnici o nella Croazia degli Ustaša. I Partigiani distruggono rapidamente le strutture nazionaliste e le forze che hanno combattuto i comunisti. Tito, che investe nell'industria in Bosnia, sa che deve cambiare volto al calcio jugoslavo. Le squadre con uno spirito nazionalista vengono di fatto cancellate, e nascono nuove società legate all'esercito, come il Partizan Belgrado (chiamato così in omaggio al gruppo combattente di Tito), la polizia e altre istituzioni statali. Ma alla morte di Tito nel 1980, l'anno del secondo trionfo consecutivo del Nottingham Forest di Brian Clough in Coppa dei Campioni, i gruppi organizzati di tifosi tornano ad essere i principali focolai delle tendenze indipendentiste.
La fine dell'inizio – Franjo Tudjman, il leader del partito nazionalista croato HDZ, sviluppa legami forti con la Dinamo Zagabria. Il gruppo di ultras della Stella Rossa, i Delje (Eroi, nome che nasce da un canto di guerra serbo d'epoca ottomana), si trasformano negli anni '90 quando inizia ad emergere la figura di Zeljko Raznatovic, che lavora per il servizio di sicurezza jugoslavo e organizza un suo gruppo nazionalista e paramilitare tra i tifosi della Stella Rossa, le Tigri. Il mondo lo conoscerà come Arkan. È lui il “generale” che ha combattuto la prima battaglia della guerra dei Balcani. Il campo di battaglia è lo stadio Maksimir di Zagabria. È il 13 maggio 1990, è in programma Dinamo Zagabria-Stella Rossa. Per Neven Andelić, autore di “Bosnia-Erzegovina: la fine di un'eredità”, “è la partita più importante nella storia della Jugoslavia. Ha implicazioni politiche ed è un segno chiaro che anticipa la violenza e la guerra”. È una partita che non si giocherà, perché la violenza e la guerra esplodono tra le due tifoserie e con la polizia. È la partita che fa di Boban un eroe nazionale perché tira un calcio a un agente che se la stava prendendo con un bambino. Verrà squalificato quattro mesi e dovrà saltare Italia '90. Quel poliziotto non era nemmeno serbo, era un bosniaco musulmano, ma è la forma che conta in quel momento, non la sostanza. Ancora oggi, fuori dallo stadio Maksimir c'è una statua che raffigura dei soldati e una scritta sul piedistallo: “Ai tifosi di questo club che su questo campo, il 13 maggio 1990, hanno iniziato la guerra contro la Serbia”.
La Bosnia e la guerra – La guerra arriva in Bosnia solo nel 1992. A Sarajevo un referendum per l'indipendenza ottiene il 92% dei consensi. Ma i serbi, che rappresentano il 57% della popolazione, non votano. L'Armata popolare circonda Sarajevo: inizia l'assedio più lungo della storia moderna. Nel '92 nasce anche la federcalcio bosniaca, prevalentemente musulmana. Le associazioni separate dei bosniaci di provenienza croata e serba si uniscono, sotto la pressione dell'UEFA e della FIFA, solo nel 2000 e nel 2002. Per rinascere, la Bosnia sceglie Ivica Osim, croato cattolico nato a Sarajevo con una moglie bosniaca e musulmana. È stato l'ultimo allenatore della Jugoslavia unita che si è dimesso a maggio del 1992 per protestare contro la guerra civile. Osim mette d'accordo le tre autorità del calcio bosniaco e chiama come presidente Elvedin Begić.
La caccia al tesoro – Dalla Svizzera arrivano Senad Lulić, che non scorderà mai il 26 maggio e il minuto 72, e Vedad Ibisević, l'autore del gol qualificazione per il Brasile. In Germania, nella città della Wolkswagen, impazza Zvjiedzan Misimović. In Lussemburgo dipinge calcio Miralem Pjanić. C'è anche chi è scappato da Sarajevo ma non dalla Bosnia, come la famiglia di Edin Džeko che ha continuato a fuggire le bombe senza lasciare la patria. Il resto è una storia di traguardi orgogliosamente mancati per un decennio. Nel 2004 sarebbe bastato un gol nell'ultima partita in casa contro la Danimarca, pareggiata 1-1, per andare agli Europei. Pareggiano due volte su due contro la Spagna nel girone di qualificazione a Germania 2006, chiudono imbattuti in casa ma non vanno nemmeno agli spareggi perché pareggiano due volte anche con la Lituania. La Bosnia sogna il Mondiale 2010, al playoff ma perde con un doppio 1-0 dal Portogallo. Viene poi scelto come ct Safet Sušić, che prima di passare al PSG aveva segnato 400 gol in 600 partite con l'FK Sarajevo. Con lui i Dragoni volano. Sono l'unica nazionale europea che non ha avuto nemmeno un giocatore squalificato nell'intero percorso di qualificazione a Brasile 2014. Sono, cantavano i tifosi a Sarajevo dopo la qualificazione, "ponos drzave", “l'orgoglio della Bosnia”.