Scudetto, 10 punti in meno, Napoli senza campione: perché il San Paolo dovrebbe riempirsi?
L'aurea mediocritas, l'oraziano principio dell'ottimale via di mezzo, può guidare i comportamenti, le scelte morali ma non funziona nelle squadre di calcio. È proprio in una terra di mezzo, tra il voler fare e il dover essere, che rischia di impantanarsi il Napoli di Ancelotti. Gli indizi, nel confronto con l'ultima stagione, sembrano andare in questa direzione.
Ancelotti vs Sarri
Dopo 24 giornate, il Napoli è secondo a tredici punti dalla Juventus, con 53 punti. Tira più di tutte in Serie A, in totale e nello specchio della porta, ma arriva dal terzo 0-0 nelle ultime quattro partite. Allo stesso punto dell'anno scorso, il Napoli era primo con dieci punti in più, aveva vinto quattro gare in più e ne aveva perse due di meno. Il dato principale che emerge è la differenza di efficacia sotto porta. Questo Napoli segna meno, 42 gol contro 54, a parità di forza difensiva (18 reti subite contro 15). Ma la vera differenza è nel rendimento in trasferta, se si guarda la situazione alla 24ma giornata nelle ultime due stagioni. Al San Paolo, rispetto all'ultimo anno di Sarri, il Napoli ha segnato un gol in meno (28 a 29) ma ne ha anche subito uno in meno (7 a 8). E non ha ancora mai perso in campionato, come la Juventus. Fuori casa, invece, cambia tutto: undici reti segnate in meno, 14 a 25, quattro concesse in più (11 a 7).
Con un campionato che sembra ormai compromesso, il Napoli ha una sola ancora di salvezza, l'Europa League. Eliminati in Coppa Italia ai quarti come l'anno scorso, gli azzurri dopo il 3-1 dell'andata contro il modesto Zurigo hanno enormi chances di migliorare il percorso europeo della scorsa stagione, interrotto ai sedicesimi contro il Lipsia. Ancora una volta sembra confermato l'assunto che, con simpatico doppio senso sportivo-gastronomico, Ancelotti ha scelto come titolo dell'autobiografia, “Preferisco la coppa”.
Manca mezzo gol a partita
“La mancanza di gol è un difetto che dobbiamo correggere” spiegava Ancelotti dopo lo 0-0 contro il Torino. Nelle ultime due gare, considerando la trasferta contro la Fiorentina, “dovevano essere sei punti e invece sono soltanto due” aggiungeva, “è un peccato perché la squadra gioca bene, mi è piaciuta, ma non finalizza quello che potrebbe”. Il problema, però, rimane e i 18 fra pali e traverse non bastano da soli a sintetizzare perché la squadra che completa di gran lunga più passaggi nella metà campo avversaria in Serie A non riesca a trasformare la quantità in qualità con la scioltezza dell'anno scorso.
Certo, lo spartito da suonare non è lo stesso. E non potrebbe essere diversamente alla luce dell'addio in estate di Reina e Jorginho, il primo motore del gioco del Napoli di Sarri con 97 passaggi di media a partita nell'ultima stagione. Con Ancelotti, la rete di passaggi si è fatta meno stretta, meno intensa. L'anno scorso, oltre a Jorginho, a fine stagione il Napoli poteva contare altri cinque giocatori con più di 70 passaggi di media a partita. Koulibaly, che oggi distribuisce più palloni di tutti, è passato dagli 85 ai 72 di media. Anche Albiol effettua 12 passaggi in meno a partita.
Ancelotti ha trasformato l'inossidabile 4-3-3 di Sarri, ha provato Hamsik come regista, ha sperimentato Fabian Ruiz prima mezzala poi regista, è passato dal 4-4-2 mutevole ad una versione più ambiziosa con Insigne e Callejon ali. Un sistema che ha promosso Milik, in cui però sta rischiando di perdersi Mertens: meno tiri, meno passaggi, un assist in più segnano il suo percorso rispetto alla scorsa stagione. La presenza di un riferimento offensivo come il polacco lo chiama ad occupare una posizione più spostata rispetto all'area, come dimostrano passaggi e movimenti delle ultime due partite. Anche se, a giudicare dal modello degli expected goals di Opta, le sue conclusioni hanno gradi di pericolosità del tutto comparabili: 0.56 gol attesi ogni 90 minuti nelle ultime due stagioni.
Rispetto allo stesso modello, Insigne rispetta nella pratica l'efficienza supposta dalla teoria (7.88 gol attesi, 8 realizzati), con una sicurezza realizzativa anche migliore rispetto all'anno scorso. Molto più presente, e determinante nell'occupazione dell'area, Milik che l'anno scorso ha tirato 23 volte (di cui 12 dall'interno dell'area) con 4,75 gol attesi e 5 effettivamente segnati. Quest'anno ha effettuato 67 conclusioni e segnato 12 reti, due in più di quelle previste dal modello. Ha realizzato tre gol da fuori su 18 tiri e 4 volte su 38 conclusioni dall'interno dell'area. Contro il Torino, il polacco ha eguagliato il suo record di tiri in stagione, 7, come nel 2-1 alla Lazio e nella vittoria a Cagliari del 16 dicembre.
Le differenze di gioco
Più che nelle prestazioni individuali, è nello scenario complessivo che si possono individuare alcune differenze in grado di spiegare, almeno in in parte, lo scarto prestazionale rispetto alla scorsa stagione. Con Sarri il Napoli concedeva 9.54 passaggi di media alle avversarie per ogni azione difensiva (e solo 4 squadre applicavano una più efficace pressione) e ne completava quasi 22 quando attaccata. Quest'anno, porta solo l'ottavo miglior pressing alto della Serie A (10.43 passaggi permessi alle difese) e ne completa 16.08 quando attaccata, che rimane comunque il dato più alto del campionato. La ricerca della verticalità fa scendere la quota di passaggi completati nella trequarti offensiva.
Il nuovo stile, che prevede anche una maggiore rotazione della rosa, ha promosso Zielinski come secondo giocatore più utilizzato nella rosa in Serie A. In una stagione in cui Mário Rui, Milik, Fabián Ruiz, Malcuit e Maksimovic hanno sicuramente acquisito valore rispetto all'anno scorso, il centrocampista polacco è il simbolo di un percorso di evoluzione ancora a metà.
Il valore della motivazione
Un percorso a cui tutto il Napoli è chiamato, in campo e fuori. Perché continuare a rimanere in campionato come Leopardi davanti alla siepe che allo sguardo nasconde tanta parte dell'orizzonte, inevitabilmente finisce per ridurre gli incentivi alla vittoria. E se calano gli stimoli, cala il livello complessivo di sforzo applicato nella ricerca del successo. Se scende la motivazione, il gioco è più lento: fai sempre quel che sai, ma non alla stessa velocità. E basta poco, basta qualche centimetro, a passare dal gol al quasi gol. In più, una squadra che in dieci anni è cresciuta solo del 60% in termini di ricavi commerciali, fatica ad attirare talenti o a mantenerli. Il divario, in termini di equilibrio competitivo, con le big aumenta. Se è vero che la presenza di poche grandi squadre al vertice per periodi medio-lunghi non sta riducendo l'appeal delle grandi leghe sportive, anzi può anche essere considerato un fattore positiva per la lega nel suo complesso, a livello di singole squadre la questione cambia.
Se manca quella fondamentale quota intangibile, il quid di imponderabile che dà il fascino allo sport, se lo sforzo è percepito nella via di mezzo non certo ottimale e non al massimo livello possibile, la disaffezione diventa una conseguenza nemmeno troppo sorprendente. I fattori contestuali, ovvero i problemi del San Paolo che rendono l'esperienza di fruizione dell'evento calcio ancora meno confortevole, e l'insofferenza verso anni di inferiorità rispetto alla Juve e alle big d'Europa e superiorità nei numeri verso il resto delle squadre italiane, spiegano il San Paolo vuoto o semi-vuoto delle ultime settimane. Non bastano i tanti bilanci in attivo a una tifoseria che aspetta l'utile insieme al bello. E rischia di perdere entrambi.