Day-after: la strategia di Mancini, la solitudine di Sarri
Mancini e Sarri, il duello non si raffredda. Anzi. Nello scenario da cavalleria rusticana, dietro e dentro le parole c'è di più. C'è una cultura da sradicare, c'è una sensibilità da ritrovare, che non si può ancora nascondere sotto la terra e la polvere di un campo di pallone. C'è una trama che rivela un ordito più complesso dell'offesa personale, del linguaggio da spogliatoio. Perché è inutile promuovere il fair play, il cartellino verde, è inutile predicare rispetto, di fronte a un'offesa che traduce un modo di pensare, di fronte a una divisione che poco dovrebbe avere a che fare col tifo.
Dandy e Operaietto – In questo nuovo capitolo del romanzo nero del nostro calcio, il contrasto fra "il Dandy" Mancini e "l'Operaietto" Sarri è solo il più evidente, anche il più caricaturale, degli aspetti. “Le persone come Sarri non possono stare nel calcio, se no non migliorerà mai” diceva Mancini, ed è vero. Come è vero che in Inghilterra non vedrebbe probabilmente più il campo o quasi. Ma in quella stessa Inghilterra che il Mancio ha vissuto e decantato, non vedrebbero gli stadi nemmeno i tifosi che si macchiassero di cori razzisti come quelli che l'attuale tecnico dell'Inter minimizzò anni fa nella retorica un po' scipita del "sono cose di campo". "Non hai capito che hai 60 anni e certe cose non le devi proprio dire?'" gli avrebbe detto in spogliatoio, secondo il suo racconto a Repubblica.
La strategia di Mancini – Il dado è tratto. Il Mancini furioso che si erge a rivoluzionario è lo stesso Mancini che più di dieci anni fa apostrofò allo stesso modo un giornalista quando allenava la Fiorentina. Allora come oggi, non c'entra l'omofobia, non c'entrano i calcoli per destabilizzare gli avversari. Insulto e reazione sono il risultato di tensioni accumulate: Mancini è il più pagato degli allenatori italiani (4 milioni a stagione fino al 2017), guadagna quattro volte più di Sarri (che non arriva al milione di ingaggio) e ha speso di più sul mercato, ha vinto la sfida del San Paolo in Coppa Italia, ma in campionato soffre. I risultati, dopo la serie di vittorie per 1-0 di inizio campionato, sono inferiori alle aspettative, Jovetic si sta rivelando uno dei grandi flop del mercato, Kondogbia ancora non ripaga i 35 milioni investiti per quello che avrebbe dovuto essere un perno del centrocampo, e gli 8 gol in 17 partite di Icardi non bastano.
Di contro, il Napoli è in testa alla classifica e viene apprezzata decisamente di più per la qualità del gioco. Non solo. Mancini è anche il candidato numero 1 per la panchina della Nazionale, qualora Conte dovesse cedere al richiamo di un club dopo l'Europeo 2016, prospettiva un po' più concreta dopo l'ennesimo strappo sulla questione degli stage azzurri. Tutti elementi che convergono, opportunità, non opportunismi, che spiegano il contesto del suo gesto, della volontà di rompere una consuetudine, magari non solo per una notte. In questa storia è il paladino del cambiamento, il portavoce di un'istanza che, se portata alle sue estreme, e auspicabili, conseguenze, porterebbe a un cambio di paradigma culturale nel modo di vivere e vedere il calcio. Ma siamo ai limiti dell'utopia o forse dell'ucronia, di un futuro immaginato e immaginario, perché irrealizzabile. Ed è chiaro che, un Sarri ‘graziato' con 2 giornate di squalifica, poi pretendere sanzioni gravi e sospensioni delle partite quando si sentono cori razzisti diventa quasi fantascienza.
Il valore del contesto – Per questo, in questo scenario la storia "proletaria" dell'operaio Sarri, che del suo essersi fatto da solo ha sempre fatto bandiera e vanto, rivela il suo lato oscuro, il controcanto nascosto sotto il tappeto. “Sarri ha detto una cosa gravissima e inaccettabile. Però mi sembra strumentale decontestualizzare la sua uscita e indicarlo al pubblico ludibrio: se si dimentica il contesto, non si fa un buon servizio alla verità dei fatti” dice Varriale a Repubblica: cosa ha detto davvero Materazzi a Zidane? Che ha detto Ljajic a Delio Rossi per farlo scattare in quel modo? Nessuno lo saprà mai, anche per quel regime di auto-assoluzione, quel così fan tutti, quel tutti colpevoli nessun colpevole che derubrica tutto a "cose di campo".
Mancini ha rotto l'omertà che domina a tutti i livelli del nostro calcio. "Ogni comportamento discriminatorio e ogni condotta che comporti offesa per motivi di sesso", si legge nel regolamento della FIGC, comporta una squalifica fino a quattro mesi da scontare anche in campionato. Mancini l'ha fatto perché vuole destabilizzare la capolista e prendere un vantaggio nella lotta scudetto? E' un'interpretazione troppo riduttiva, troppo semplicistica per essere accettata. Mancini, che vive ai massimi livelli del calcio da quando aveva 16 anni, ha segnato una riga, ha disegnato un confine, pur esagerando l'età di Sarri, che di anni ne ha 57, cinque in più di lui. In un Paese che, in questi giorni, ha trasformato l'ingiuria da reato punibile con il carcere fino a sei mesi a semplice illecito civile, Mancini ha avviato una battaglia sull'ingiuria nel pallone, per il rispetto del regolamento. Una battaglia che, però, andrebbe estesa a tutti i livelli, in tutti i contesti, indipendentemente dalle appartenenze di parte e dal calore del momento, dall'adrenalina del match.
I limiti di Sarri – E' proprio nella gestione del dopo che si sono visti e si stanno vedendo anche tutti i limiti del Napoli come società. L'uomo Sarri rimane solo davanti al "plotone d'esecuzione" mediatico che lo vorrebbe squalificato per mesi, nell'esaltazione di un bigottismo moralista che sempre accompagna chi non potendo più dare il cattivo esempio si mette a dare buoni consigli. Icona, immagine, epifania, non di una società dal volto umano. Ma di una società con un volto solo, quello del presidente De Laurentiis, incarnazione della via, della struttura, della spina dorsale del club. Eccessi di personalizzazione che rivelano le ombre dietro la luce abbagliante del gioco spumeggiante, del primo posto e dei venti gol di Higuain. Una società che vive lo stesso travaglio del suo tecnico, e forse non a caso De Laurentiis ha deciso di non multarlo: anche questa un'occasione mancata in una storia che si chiude con uno stanco finale all'italiana, "a tarallucci e vino", con un paio di giornate di stop e poi tutto come prima, tutti con gli occhi sudati e le mani in tasca, pronti a dimenticare un po' più in fretta purché lo spettacolo non finisca.
Una società che, come il suo tecnico, vince in campo ma fuori no. E quando i risultati premiano, quando l'attenzione cresce, il primo posto non basta da solo, non giustifica, non assolve. Anzi, moltiplica colpe e responsabilità. Al di là della tuta e del sigaro, l'identità operaia e la somiglianza con l'attore che interpreta il boss di Gomorra, l'immagine conta. E non serve nemmeno un gigante della produzione cinematografica come De Laurentiis per capire che il Sarri di Napoli non può essere il Sarri di Empoli, che l'autenticità va da un lato difesa ma dall'altro adattata al contesto e alle ambizioni. Tra una piazza grande e una grande piazza c'è una differenza enorme da accettare e da rispettare.