Come sarebbe la Roma senza cessioni eccellenti. Ma non è (tutta) colpa di Monchi
Dalla semifinale di Champions di un anno fa, la Roma ha cambiato amministratore delegato, direttore commerciale, medico, fisioterapista, una ventina di giocatori. Da questa settimana ha anche un nuovo allenatore e un nuovo direttore sportivo. Paga anche Monchi, che ha prodotto 69 milioni sul mercato al netto delle plusvalenze. Paga però il flop Pastore e scelte sbagliate. I tifosi non gli perdonano le cessioni di Salah e Alisson al Liverpool, la sostituzione del portiere con Olsen, la scelta ingaggiare Schick, un attaccante centrale, dopo aver a lungo inseguito Mahrez per prendere il posto dell'egiziano. Monchi, che stava per vendere Dzeko al Chelsea, ha indovinato due scelte non semplici, Under e Zaniolo, ma non è bastato. “L'importante non è vendere, è comprare bene” ha detto in una delle prime uscite da ds della Roma. Gli è riuscita solo la prima parte. Ma se la Roma deve smontare la squadra ogni anno, non è solo colpa sua.
Mezzo miliardo di cessioni
Nelle quattro sessioni di mercato con il direttore sportivo spagnolo, la Roma ha acquistato giocatori per 264 milioni e completato cessioni per 333,65 milioni. Il quadro dell'ultimo lustro fa emergere operazioni in uscita per mezzo miliardo. Con i calciatori venduti a peso d'oro negli ultimi cinque anni si potrebbe costruire una squadra ideale di alto livello.
Monchi ha venduto bene, ha speso non comprando benissimo. Quattro i giocatori arrivati per cifre sopra i 20 milioni, riscatti e bonus inclusi: Schick (42 milioni), Cristante (30), Nzonzi (26,65), Pastore (24,7). Nessuno ha reso secondo le attese. Quel che porta la Roma a smontarsi e provare a rinnovarsi ogni anno precede Monchi e rimarrà dopo la sua uscita e il passaggio di consegne a Massara.
Negli ultimi cinque anni, la società ha acquistato calciatori per 480 milioni e ne ha ceduti per 507 milioni. Ma l'attività spesso frenetica durante il calciomercato, la ricerca della plusvalenza, non è solo un vezzo del ds spagnolo.
Nella gestione Pallotta, dal 2011 al 2018, la Roma ha sempre chiuso i bilanci con i conti in rosso, con un passivo complessivo di 263 milioni. Nemmeno la semifinale di Champions dell'anno scorso, che pure ha elevato il fatturato alla cifra record di 250 milioni, ha evitato un bilancio negativo per 20 di milioni, il secondo miglior risultato dell'era americana. Un passivo che comunque consente alla Roma di rimanere in linea con le richieste Uefa in materia di fair play finanziario, perché detratti i costi per strutture e settore giovanile il pareggio di bilancio risulta confermato, ma contiene anche una delle principali ragioni alla base di determinate scelte in sede di mercato.
Troppa dipendenza dalle tv
Nell'ultimo bilancio, nota l'agenzia Deloitte nella più recente edizione del rapporto annuale “Football Money League”, due terzi degli introiti stagionali dipendevano dai diritti televisivi, una fetta in cui rientra anche la redistribuzione del market pool della Uefa per la Champions League. L'effetto positivo della semifinale contro il Liverpool, si legge nel rapporto, “si rispecchia anche nella crescita rispetto all'anno precedente dei ricavi da biglietteria (44%, €10.9mln) e di quelli commerciali (46%, €15.1mln). Questi ultimi includono anche l'anticipo da parte di Qatar Airways, sponsor di maglia dalla stagione 2018-19”.
Una squadra che dipende così tanto da diritti televisivi e prestazioni in Champions, che ha la necessità di contenere i costi rilevanti per non incorrere nelle sanzioni Uefa, nel medio-lungo periodo potrebbe, e forse dovrebbe, incentivare la diversificazione delle fonti di ricavo. Non a caso, il primo atout di Pallotta era, e rimane, la costruzione dello stadio di proprietà. Nel breve, la necessità del risultato diventa una pressione in più che influisce anche sulle scelte di programmazione e restringe gli orizzonti delle valutazioni.
Per vincere si spende sempre di più
Competere per le posizioni di vertice in Italia e in Europa comporta spendere di più. È il trend evidenziato dal “Global Transfer Market Report” della FIFA. Nel 2018, nel mondo, i trasferimenti globali hanno raggiunto la cifra di 7,03 miliardi di dollari, che per il 73% dipende dalle operazioni nei cinque principali campionati europei: Premier League (1,98 miliardi), Liga (1,35 miliardi), Serie A (848,9 milioni), Bundesliga (485 milioni) e Ligue 1 (469,1 milioni, -45,4%). Rispetto al 2017, il totale dei trasferimenti mostra un aumento del 9,85%, in calo rispetto all'incremento del 32% tra il 2017 e il 2016.
La Roma ha alimentato le sue ambizioni con una rosa che, nel bilancio 2018, tra ammortamenti e ingaggi, staff tecnico compreso, costa 190 milioni e da sola copre quasi tutti i 250 milioni di ricavi. Un modello difficilmente sostenibile.
Da quando è arrivato, Monchi ha tentato di replicare alla Roma le politiche gestionali che hanno permesso al Siviglia di vincere tre volte l'Europa League negli ultimi cinque anni. Le operazioni di mercato condotte dallo spagnolo hanno creato plusvalenze per 200 milioni e benefici per oltre 110 in materia di “gestione dei calciatori”. La differenza con il club andaluso, però, sta tutta nelle condizioni di partenza. Il Siviglia, spiega il Pais, ha totalizzato profitti per 100 milioni di euro nelle ultime tre stagioni e non ha debiti. È una società con 60 milioni di euro in cassa, uno stadio e una cittadella sportiva di proprietà, una buona serie di bilanci in attivo. La differenza rispetto alla Roma si vede, si sente, si tocca.