Ora cambiamo tutto: via Tavecchio e serie A a 18 squadre
Il fallimento inizia sempre dalla testa. Lo sprofondo azzurro contro la Svezia è anche la sconfitta della presidenza Tavecchio, che il ct ha difeso tanto da rinnovargli anche il contratto fino al 2020. Con la pioggia di milioni in meno tra sponsor che diranno addio, bonus che non arriveranno e diritti tv destinati ad essere rivisti al ribasso, è tutta una politica federale a questo punto da rimettere in discussione.
Serie A a 18 squadre
Il campionato italiano, così com'è, costa troppo e vale poco. "Il valore della produzione fa registrare la crescita più consistente degli ultimi cinque anni (più 9,2% da 2.210,3 a 2.413,9 milioni)" si legge nell'ultimo Rapporto Calcio realizzato dalla FIGC in collaborazione con PwC, "grazie all’incremento dell’8,5% dei ricavi da diritti tv e del 14,9% dei ricavi da sponsor e da attività commerciali. La crescita delle entrate commerciali da 360,9 a 414,8 milioni è indice di un maggiore dinamismo imprenditoriale dei club, anche se il dato resta lontano dai risultati ottenuti dalle società dei principali campionati del resto d’Europa".
Perché il dato resta lontano? Perché dai diritti tv, sottolinea anche l'ultima analisi Deloitte per il 2016, dipende il 61% degli introiti stagionali delle squadre italiane, una dipendenza decisamente più alta di quanto si registra negli altri principali campionati europei (Premier League 53%, Liga 48%, Ligue1 44%, Bundesliga 31%). E manca una vera diversificazione che consenta una programmazione di lungo periodo. Con un risultato netto negativo per 250 milioni, sottolinea il Rapporto Calcio, e costi operativi che crescono del 5.5%, la Serie A torna complessivamente a indebitarsi per oltre tre miliardi.
Troppi debiti in Serie A
"Cambia la composizione dei debiti: diminuisce del 6,2% la quota di quelli finanziari e crescono a oltre 800 milioni quelli “verso enti settore specifico”, per ritardati pagamenti fra club" si legge. Notevole come le plusvalenze (376 milioni) siano determinate soprattutto da trasferimenti di calciatori sul mercato interno. Inoltre "il 33,3% delle plusvalenze è finito nelle casse delle squadre classificate ai primi tre posti del campionato". Addio equilibrio competitivo, che rimane certamente un fattore determinante più nell’andamento della fruizione televisiva del calcio. Nella presenza dei tifosi sugli spalti, è più l’home advantage, la probabilità che sia la squadra di casa a vincere, o la qualità del campionato (la distribuzione del talento, la presenza e la concentrazione di star internazionali) a fare la differenza. Ma se dalla televisione dipende la sopravvivenza delle squadre, è da qui che bisogna partire.
Il modello tedesco
La sfuriata, con tanto di scuse un po' raffazzonate di Pochesci, raccontano un certo modo di pensare italico anche rispetto alla multi-etnicità che ha fatto la storia e il successo della Germania. E invece è proprio al modello tedesco, non solo da questo punto di vista, che l'Italia dovrebbe guardare per trovare una strada in grado di farci rivedere le stelle. La DFB, dopo il fallimento europeo al 2000, ha creato una nazionale polifonica e multietnica lasciando che l‘editto della purezza valga solo per i produttori di birra.
In Italia, invece, il movimento calcio fa i conti con un modesto 4% di tesserati stranieri sugli oltre 1.353.000 tra calciatori, tecnici, arbitri e dirigenti. Un modello incapace di guardare oltre, di pensare a una prospettiva di medio e lungo periodo, di fornire una visione che vada al di là del quotidiano galleggiamento, della difesa di zone di potere.
Non è vero che il problema sono gli stranieri
Gli stranieri, di per sé, non costituiscono né il bene di per sé né l'origine di tutti i mali. Nel 2013, la Bundesliga era il quarto Paese al Mondo per flusso di trasferimenti internazionali in entrata (345), davanti all’Italia (sesta con 304) e alla Spagna (nona con 264. Anche in questo mercato, la quota non è poi così diversa da quella che si registra in Italia. Quel che fa la differenza è la politica composita di reclutamento. Agli stranieri, infatti, si affianca un'efficace formazione dei giovani attraverso i Talent Promotion Program istituzionalizzati in tutti i club, secondo le regole didattiche della DFB.
Quattro anni fa, in un’intervista a La Gazzetta dello Sport, Christian Seifert, allora amministratore delegato della Bundesliga, spiegava come la Lega obbligava ad averw nelle selezioni giovanili almeno 12 giocatori eleggibili nelle nazionali tedesche dall’Under 16 in avanti. Un percorso iniziato nel 2000 dopo l’eliminazione della Nazionale all’Europeo senza nemmeno una vittoria, un percorso di sostenibilità di lungo periodo che permette un radicale cambio di filosofia. Il Bayern può strappare al Borussia Mario Gotze, può portare Tolisso, il più pagato nella storia dei bavaresi, e intanto sostenere le politiche diverse sul mercato del Borussia Dortmund o del Lipsia spinto dai milioni della Red Bull che non mette le ali solo nella pubblicità.
L'Italia è ferma e gattopardesca
In Italia, invece, la strada è solo una. La ricerca di una monetizzazione immediata fa sì che l'afflusso degli stranieri diventi non un arricchimento, una strada alternativa, un percorso complementare, ma si trasformi nella via prioritaria di organizzazione delle rose. Le opportunità scarseggiano, il campionato è sempre meno allenante e il prodotto Serie A non attira campioni né tifosi negli stadi sempre più costosi, tristi e vuoti, senza nemmeno i settori con i posti in piedi e i prezzi popolari che in Europa stanno rianimando la passione per il pallone.
Si vive di fortune raccontate, in Italia, di passi stanchi, di lenta costruzione che non porta da nessuna parte. Il calcio, la più importante delle cose non importanti, è lo specchio di una nazione gattopardesca in ogni sua manifestazione. Ma per cambiare tutto questo non basterà certo cambiare un presidente con un altro. Altrimenti qualcosa cambierà perché nulla cambi davvero.