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La Joya Dybala, storia di un campione

A 15 anni, dopo la morte del padre, avrebbe voluto smettere col calcio. Ha vissuto per anni nel residence dell’Instituto. Ha battuto tutti i record di precocità nella storia del club, ha fatto meglio anche di Mario Kempes. A Palermo, Gattuso gli ha dato un consiglio chiave: lavorare solo sull’esplosività delle gambe. Alla Juve, il Gioiello brilla come non mai. E adesso non deve più scegliere Buffon solo alla Playstation.
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Dicono che in tutta l'Argentina ci sia un solo posto dove i ragazzi non vanno in giro con le maglie del Boca, del River o del Barcellona. Quel posto è Laguna Larga, 50 chilometri da Cordoba. Qui si ricordano ancora di Paulo, il ragazzino che chiamavano “il pretino” perché quando era così minuto che, quando giocava a calcio, la maglia della squadra gli stava lunga come una tunica. Paulo che a 10 anni ha vinto 30 pesos alla lotteria alla Favorita, la ricevitoria di papà Adolfo, notevole ala destra da giovane, poi diventato un volante, un centrocampista a tutto campo, più Mascherano che Pirlo, all'Instituto. Per tutti era Il Chancho, il maiale, per certi interventi piuttosto decisi. La lotteria della vita gli toglierà tanto. E tanto gli restituirà, con gli interessi, in un'altra Favorita. Adesso non lo chiamano più il pretino, oggi è La Joya, è un gioiello. Ma nessuno ha ancora imparato a pronunciare bene il suo cognome, che si scrive Dybala, ma si legge Dibaua. E comunque si traduce campione.

Nonno Boleslaw – Il piccolo Paulo ha gli occhi del padre e la compostezza di nonno Boleslaw, che lasciò Krasniow, un piccolo villaggio a 300 chilometri a sud di Varsavia, con la Seconda guerra mondiale alle porte. “Mettiamo la nostra vita pubblica e privata su una corsia diversa” chiedeva il presidente Ignacy Moscicki mentre proclamava lo stato di guerra. Per Boleslaw quella corsia portava in Argentina. Non aveva niente, per due settimane ha dormito in un campo di pannocchie e per poco non è morto di fame. «Non posso credere che mio nipote sia un calciatore di fama mondiale», dice la zia polacca, Henryka, nel documentario del regista Mateusz Swiecicki.

Il sogno di papà – Avere un figlio calciatore è sempre stato il sogno del Chancho. Non gli è riuscito col primo figlio, Gustavo. Non gli è riuscito col secondo, Mariano, che pure mostra un grande talento da piccolo. “Lo sa solo lui” sostiene Paulo, “perché non sia diventato un giocatore professionista”.

La canchita del Seba – Già a quattro, cinque anni, Dybala gioca le infinite partitelle alla canchita del Seba. È un campetto circondato da pneumatici da camion che fanno da tribuna improvvisata dove Sebastián Barrionuevo riunisce tutti i bambini del barrio. Oggi il campetto non esiste più, al suo posto c'è un giardino attrezzato, la Ciudad de los Niños. Ma il segno, il ricordo del suo passaggio, rimane. Non passa molto tempo che Paulo entri nello Sportivo, lo stesso club dove aveva iniziato il padre: qui impara le basi del pallone e del gioco degli scacchi. Lo notano tutti, piace a tutti, ma a un certo punto Paulo si annoia. “Disse: ne ho abbastanza del calcio e si iscrisse a una squadra di basket, dalla quale venne cacciato dopo che fu giudicato inguaribile il suo riflesso di stoppare la palla coi piedi” ha raccontato mamma Alicia.

La morte del padre – C'è un altro momento in cui Dybala pensa di lasciare tutto. È il 26 settembre del 2006: papà Adolfo muore per un cancro al pancreas. Mamma Alicia deve prendere in mano la gestione della ricevitoria, Paulo deve giocare per l'Instituto di Cordoba ma vuole rimanere vicino alla famiglia. Si trova un compromesso: starà sei mesi in prestito al Newell's, la squadra di Laguna Larga. Saranno i sei mesi peggiori della sua carriera. Dovevo farcela: per onorare la memoria di papà ed esaudire il suo desiderio” raccontava a Sportweek. “Lui mi aveva accompagnato a ogni allenamento,un’ora di macchina da Laguna Larga a Cordoba”. Una volta tornato all'Instituto, rimane a vivere alla Augustina, residence per giovani promesse, La Augustina, che il club metteva a disposizione dei giovani calciatori che venivano da fuori. Non sono mesi facili. “Ero rimasto orfano da poco e avevo la famiglia lontano. Mi chiudevo in bagno a piangere, ma non ho mollato. E oggi so che papà è orgoglioso di me” ha spiegato. Qui diventa "el pibe de la pensiòn", "il ragazzo del collegio". “Mingherlino, ma con un gran sinistro, andava a caccia di rigori o si accontentava di segnare su punizione”, assicura il cronista cordobese Marcelo Bertona, come si legge su Repubblica.

La Gloria – L'esordio in prima squadra con La Gloria, così è chiamato il club fondato da un gruppo di lavoratori delle ferrovie, è il risultato di una combinazione di casualità e buona sorte. Nel derby contro l'Huracan, nel campionato di seconda divisione 2011-12, le tre punte titolari non sono disponibili. Il tecnico Dario Franco deve ricorrere a Paulo, che gioca sotto falso nome, racconta la madre, perché l'ingaggio non è ancora formalizzato. È il 13 agosto del 2011. Una settimana dopo, vanno già riscritti tutti i libri di storia del club. Con La Gloria, verso la gloria.

Il treno dei record – Alla seconda giornata, contro l'Aldovisivi, segna il gol numero 999 nella storia del club. È il marcatore più giovane di sempre per gli albirrojas: in due settimane ha battuto il record del “nueve” che ha portato l'Argentina al titolo mundial nel 1978, il simbolo di Cordoba cui è dedicato lo stadio dell'Instituto, Mario Kempes. E il meglio deve ancora venire. Come lui, segna sette gol nelle prime dieci partite in prima squadra. A 17 anni, 10 mesi e 22 giorni rifila una tripletta all'Atlanta. Nessun minorenne ci era più riuscito nei campionati professionistici d'Argentina dal 1978: anche allora, dalla parte sbagliata, l'Atlanta ha fatto la storia, ha incrociato la storia di Diego Armando Maradona. Di tripletta ne segnerà un'altra, al Desamparados, e grazie all'arbitro Fernando Rapallini si porta a casa il pallone, poi firmato da tutti i compagni di squadra.

L'evoluzione tattica – Dario Franco, difensore e “tattico” del Newell's nel 1991, l'anno del titolo vinto ai rigori sul Boca, incaricato dal suo maestro Marcelo Bielsa di presentare rapporti dettagliati sui prossimi avversari, fa evolvere Dybala in una punta letale. È un attaccante atipico, dal temperamento posato classico dei cordobesi, che si ispira a Messi, che guarda ai grandi trequartisti come Ronaldinho, che tifa Boca ma in quella stagione incrocia, contro il River Plate, un centravanti da cui ruba un pezzo fondamentale della sua filosofia: David Trezeguet. “Faceva solo cose semplici” spiega nel documentario a lui dedicato, “ed è fondamentale in area di rigore”. A fine 2011 indossa per la prima volta la maglia argentina, anche se solo quella della selezione voluta da Javier Zanetti per un'amichevole benefica contro l'Uruguay: gli argentini vinceranno 4-3, e Dybala segnerà il gol decisivo. “Paulo arriverà presto in un top club” prefigura Zanetti.

Il 2012, l'anno della svolta – E quel club potrebbe essere proprio l'Inter. Ma l'intreccio è complesso, il suo cartellino è diviso fra l'Instituto e la Penchill Limited di Gustavo Mascardi che detiene i diritti d'immagine. E poi, c'è da trattare con i due procuratori Omar Peirrone e Gonzalo Rebasa. Finisce a Palermo, e Zamparini continua a pagare le conseguenze anche legali di quell'affare. È il Palermo argentino con Pastore e soprattutto Franco Vazquez, che è di Cordoba pure lui ma tifa per il Belgrano, la grande rivale cordobese della Gloria insieme con il Talleres. Il 2012 è stato il vero anno della svolta nella sua vita. Va a vivere da solo, in un appartamento nel barrio General Paz ma, racconta, “continuavo a farmi lavare i vestiti da mamma”, che cerca di farlo parlare di tutto, ma non di calcio. Compra la sua prima macchina, una Seat Leon nera usata, che apparteneva a Silvio Romero, il “Chino”, all'Instituto pure lui tra il 2005 e il 2010. In Italia arriva con un passaporto italiano. Vorrebbe prendere quello polacco, in omaggio alla famiglia di nonno Boleslaw, ma i documenti non arrivano in tempo, e ripiega sulla nazionalità dei parenti di mamma Alicia.

La Joya della Serie A – A Palermo, tra Serie A e B, si evolve. Conosce il nostro calcio, affronta i campioni che sceglieva sempre alla Playstation. “Dal punto di vista tecnico” diceva in un'intervista alla rivista francese So Foot, “in Italia ho imparato a difendere meglio la palla, e questo mi permette, grazie alla mia velocità, di fare la differenza. E poi, questo è molto importante per gli allenatori che temono tu possa perdere il pallone in una zona pericolosa. Ho imparato molto anche tatticamente. Ho capito che non puoi metterti a dribblare dove ti pare e a gestirmi meglio”. Fondamentale, spiega, il consiglio di Rino Gattuso. “Mi disse di lavorare solo sull'esplosività delle gambe, e di lasciar perdere i pesi per la parte alta del corpo. Per il mio gioco, diceva, è inutile”. Qualità che gli stanno permettendo di fare la differenza alla Juventus. Qui ha solo sfiorato Andrea Pirlo, il giocatore italiano che ha ammirato di più. Ma adesso non deve più scegliere Buffon, “per me il miglior portiere del mondo” dice, nelle sfide alla Playstation. Adesso, ce l'ha come compagno di squadra. E sulle strade di Laguna Larga, ora va di moda il bianconero.

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