L’Inghilterra ai piedi di Mancini e di Di Matteo: italians do it better
L'Italia non è più ai primi posti del calcio internazionale, scendendo anche le classifiche del ranking europeo in modo inesorabile eppure qualcosa di italiano – e di vincente – ancora c'è in giro per il Vecchio Continente.
Si tratta di chi il calcio lo insegna in panchina e lo fa ancora molto bene, forse meglio di molti altri. Ciò che sa capitando Oltremanica ne è la riprova con l'ultimo successo del Manchester City di Roberto Mancini e il raggiungimento della finalissima di Champions League da parte del Chelsea con Di Matteo alla guida.
Senza dimenticare ciò che di buono aveva fatto precedentemente con la Nazionale inglese Fabio Capello, prima della lite per la scelta della fascia di capitano imposta da parte della federcalcio anglosassone. Insomma, non più profeti in patria (dove prolifera anche in panchina la ‘moda' esterofila) i nostri tecnici spopolano nella ‘patria del calcio' dove all'insofferenza storica inglese per gli stranieri contrappongono i risultati vincenti.
Il Re di Manchester – Dopo l'ultimo derby vinto, adesso, la Premier è nelle mani di Roberto Mancini. Il Manchester City, conquistata 1-0 la sfida di Manchester con lo United nell'attesissimo monday night, ha acciuffato i Red Devils in vetta alla classifica. Non solo la leadership condivisa ma un primato che oggi consegnerebbe il campionato ai citizens perchè gli uomini del tecnico jesino hanno anche un netto vantaggio (+8) nella differenza reti generale che sarà decisiva in caso di arrivo in parità. Nelle due giornate che mancano alla fine del campionato, il City giocherà in trasferta con il Newcastle e poi in casa con il Qpr, mentre lo United sarà impegnato all'Old Trafford con lo Swansea e all'ultima giornata in casa del Sunderland. Nessun match proibitivo, dunque, ma un cammino che sembra sorridere ai citizens per una marcia trionfale attesa da fin troppo tempo.
Sotto gli occhi di Diego Armando Maradona in tribuna, che si è beato dell'ennesima prova positiva del genero Aguero, a decidere la supersfida all'Etihad Stadium è stato un gol nel finale del primo tempo di Kompany, bravo con un imperioso stacco di testa a centro area a beffare la sorpresa difesa dello United e il portiere spagnolo De Gea. Ciò che ha più impressionato, peró, è il fatto che la partita sia sempre stata in mano alla squadra di Mancini, facendo quasi il doppio del possesso palla e tenendo sempre in mano il pallino del gioco, rispetto ad un United che è parso timoroso e impacciato.
Non ha mai sofferto in difesa ed ha avuto costante predominio a centrocampo, affidandosi davanti all'inventiva di Silva, Nasri e Tevez che hanno tenuto in costante apprensione la retroguardia avversaria.
Ha fatto poco lo United per rientrare in partita, pochissime le occasioni create, non pervenuto Rooney non supportato da un centrocampo ‘svuotato'. Una bruttissima serata per i diavoli rossi di un nervosissimo sir Alex Ferguson in panchina, che ha avuto un battibecco pesante con Mancini nel finale, dopo un intervento duro di De Jong su Welbeck. Il tecnico italiano è stato osannato dai tifosi, che hanno cantato a lungo il suo nome mentre per il longevo baronetto dello United non e rimasta che la delusione di aver steccato anche nel derby di ritorno, dopo aver perso nell'umiliazione totale il match d'andata finito 6-1 all'Old Trafford per il City di Mancini.
Odiato ma vincente – Il Mancio non è mai stato un allenatore facile, un esempio di simpatia e empatia. Ai tempi dell'Inter (ma anche agli esordi con la Fiorentina prima e con la Lazio poi) erano più i nemici rispetto a chi cercava di salire (malgrado tutto) sul carro dei vincitori quando, nel dopo Calciopoli, i nerazzurri iniziarono a vincere proprio con lo jesino in panchina. Tanto mal sopportato che, una volta finita bruscamente la sua avventura con Moratti, si diceva che in Italia non potesse più allenare se non in sole altre due piazze (Sampdoria e Lazio). Il suo fare burbero, al limite dell'arroganza, il suo essersi schierato nettamente da una parte precisa anti-juventina (dove per Juve in quel periodo si identificavano Giraudo e Moggi ma anche la Gea di Moggi jr) l'avevano posto sotto una pessima stella. Poco male: due anni di stop lautamente pagati e l'occasione giusta a Manchester, per ripartire.
Mancini non ha avuto vita facile tra scetticismo e invidia inglesi per l'essere guidati da uno ‘straniero', eppure ha resistito alle tormente iniziali che spazzavano su una piazza a secco troppo a lungo di vittorie importanti. Ha chiesto e ottenuto, dalla dirigenza ma ha anche saputo correggersi e ripartire affrontando i problemi (non pochi) e le intemperanze di Mario Balotelli, il bad boy fortemente voluto, fortemente difeso ma anche fortemente criticato. In una coerenza che, anche nella gestione del caso Tevez, ha fatto entrare Mancini nel cuore dei propri tifosi di Manchester.
C'è chi sostiene che, avendo avuto tutti i giocatori che desiderava, tutto sia stato molto più semplice, ma nell'opulenza delle possibilità bisogna anche dimostrare di saper fare le scelte giuste. L'avere avuto carta bianca e la borsa sempre aperta da parte degli sceicchi poteva essere un pericolosissimo boomerang che nelle mani di Mancini si è trasformato in un'arma a proprio vantaggio, a tratti micidiale.
Anche altri tecnici hanno potuto scegliere senza badare a spese, restando in Italia, basti pensare alla Roma di Luis Enrique, lo spagnolo che ha avuto dalla proprietà americana qualsiasi giocatore avesse chiesto, ma i risultati non gli sono di conforto comunque.
Bisogna saper scegliere, anche ammettere i propri errori e trasformare i propri limiti in virtù vincenti: il reintegro di Tevez è da leggersi in quest'ottica, un'altra lezione del Mancio. La fiducia riposta nell'italiano da parte della società e dei tifosi potrebbe essere ripagata nel ricevere il terzo scudetto della loro storia. Quello che manca da 44 anni e che il Mancio potrebbe riportare nella Manchester azzurra per aprire un nuovo ciclo già bagnato dal successo in FA Cup.
Sinfonia in Blues – Insieme a Mancini, a farla da padrone in Inghilterra è anche un altro Roberto, Di Matteo alla guida del Chelsea. Una storia differente ma con lo stesso epilogo vincente e con il medesimo marchio di fabbrica del sapere fare le scelte giuste nel momeno giusto. Se Mancini era stato chiamato dal City come l'uomo necessario per aprire un ciclo vincente a suon di milioni di euro e con un progetto ambizioso, per l'ex centrocampista della Lazio e della Nazionale è stato completamente diverso. Con la scelta dettata dalla disperazione, Abramovich ha chiamato in panchina Di Matteo dopo aver salutato l'ex ragazzo prodigio Villas Boas, il portoghese che ha fallito a Londra gettando i blues in un medioevo calcistico d'altri tempi.
Al contrario di Mancini a Manchester, a Londra Di Matteo aveva però la strada spianata essendo stato un calciatore vincente con la maglia dei Blues: nel 1996 si è trasferito a Londra, al Chelsea. Con i Blues ha vinto una Coppa delle Coppe, una Supercoppa europea, due FA Cup, una Supercoppa e una Coppa di Lega inglese. Non solo, perchè proprio in Inghilterra aveva mosso i suoi primi passi da tecnico: nel 2008 ha esordito sulla panchina del Milton Keynes Dons, condotto ai play-off di terza serie, e dal 2009 al 2011 ha allenato il West Bromwich Albion.
Poi, lo scorso 4 marzo, con una Premier completamente compromessa e un cammino Champions improbabile, Di Matteo ha lasciato il ruolo di vice, prendendo la guida della prima squadra e ha dovuto far di necessità virtù "inventandosi" una ricetta vincente, fatta anche in questo caso di scelte ben precise. Così, ridando fiducia alla Vecchia Guardia formata dai vari Drogba, Terry, Lampard, il tecnico italiano è riuscito a rimettere su binari giusti la stagione dei Blues conquistando due finali in pochi giorni contro ogni pronostico. Il 5 maggio a Wembley si giocherà la finale di FA Cup contro il Liverpool e il 19 maggio a Monaco la finalissima di Champions League contro il Bayern Monaco: un ‘double' impensabile che lo proietta verso un'assoluta riconferma sulla panchina del Chelsea. Il ‘capolavoro' è stato in Europa, con una finale ottenuta nell'esasperazione tattica imposta ai propri giocatori che ha fermato il favoritissimo Barcellona dei marziani di Pep Guardiola inchinatisi davanti alla soluzione più semplice ed efficace di sempre: il buon vecchio ‘catenaccio' all'italiana che ha portato il Chelsea alla sua seconda finale di sempre.