Gigi Riva, 50 anni d’amore in azzurro
Cinquant’anni d’azzurro. Oggi si celebra mezzo secolo d’amore tra la nazionale e Gigi Riva, miglior marcatore in azzurro di sempre, 35 gol in 43 partite (22 in tre anni dai primi, la tripletta contro Cipro nel ’67, a ItaliaGermaniaQuattroATre, tutto attaccato, tutto d’un fiato). Ne è passata d’acqua sotto il ponte delle Catene a Budapest, dove tutto è cominciato in quel pomeriggio prima caldo, poi insolitamente piovoso del 27 giugno 1965. Il Nepstadion, che oggi è intitolato a Ferenc Puskas, trasuda sempre storia ma la gloria è ormai lontana. Riva è ancora solo un’ala sinistra e non ancora un soprannome, Rombo di Tuono arriverà solo dopo il 3-1 in casa dell’Inter del 1970, pochi giorni prima che l’austriaco Hof gli rompa tibia e perone della gamba destra: la sinistra se l’era rotta tre anni prima nello scontro con il portiere portoghese Americo nel marzo '67, la prima volta che ha indossato la maglia azzurra col numero 9: sarà anche l’ultima.
Simbolo di Cagliari – Tifoso di Coppi e dell’Inter, un po’ come tutti i suoi coetanei di Leggiuno, promessa giù mantenuta al Legnano, in serie C, Riva sta giocando in nazionale anche nel giorno che gli cambierà la vita. È solo la selezione giovanile, che ha battuto la Spagna il 13 marzo 1963. Durante il viaggio di ritorno in aereo l’allenatore dei lilla, Lupi, gli dice: “Ti abbiamo venduto”. Riva pensa al Bologna di Bernardini, che avrebbe vinto l’ultimo scudetto della sua storia, o all’Inter, che proprio dalla squadra che gioca come solo in Paradiso avrebbe perso a pochi giorni dalla morte del presidente Dall’Ara, che nell’intervallo della partita offre anche 50 milioni. Ma il presidente Caccia ha già trovato un accordo con il Cagliari per 37 milioni. «La Sardegna allora non era la Costa Smeralda, l’Aga Khan, era il posto dove mandavano i carabinieri per punizione» dirà. Diventerà più sardo dei sardi come Fabrizio De Andrè, che ha incontrato una volta sola e ammira da sempre: sono proprio i nastri di Faber, che Gigi passa all’autista, la colonna sonora delle trasferte in pullman del Cagliari dello scudetto.
Sandokan – L’ha voluto in rossoblù Arturo “Sandokan” Silvestri. «Mi accolse come un padre e tutte le sere i primi tempi cenavo con lui nel refettorio dove stavano i giovani» ha ricordato Riva. Dopo 150 partite da calciatore col Milan del trio Gre-No-Li (Gren-Nordahl-Liedholm), ha portato il Cagliari in B nel 1962. Nella stagione della prima, storica, promozione in A, Riva si prende a suon di gol pesanti il posto da titolare di Antonio Congiu, attaccante nato a Cagliari con un solo sogno nella vita: giocare in serie A con i rossoblù. Silvestri gli regala una presenza da capitano alla prima in casa, all’Amsicora, il 27 settembre contro la Sampdoria: finisce 1-1, Riva segna il suo primo gol in serie A. Congiu, ormai di troppo, lascia il calcio e apre un’attività commerciale.
Il debutto in azzurro – Saranno nove i gol di Riva in quella prima stagione in serie A. Il Cagliari è la vera rivelazione del campionato: ultimo dopo il girone d’andata, chiude sesto con 34 punti in 34 partite. Con quella maglia d’altri tempi, di lana e a maniche lunghe, senza colletto e con i laccetti, venduta due anni fa per 6500 euro in occasione di un’asta benefica, sarebbe stato impossibile non notarlo, anche per Edmondo Fabbri. «Al contrario di Mazzola e di Rivera, che da lui vennero coccolati moltissimo – dice oggi Riva – non ho mai ritenuto Fabbri un grande commissario tecnico: tutt’al più un buon preparatore». Mondino, d’altra parte, stravede per Pascutti, 130 gol senza rigori in campionato con la fama di centravanti iroso e umorale, che ha perso due fratelli prima di partire per il Mondiale del 1966: a Enea, emigrato in Canada e già malato, ha promesso di portarlo con sé ma non farà in tempo, a Paride han levato l'anima a forza di botte in guerra. Ezio, un po' come i fratelli, porta il destino scritto nel nome. L'hanno chiamato come l'ultimo condottiero prima dello sfascio dell'Impero Romano (ma è solo una coincidenza, non la ragione della scelta). Sarà uno dei simboli dell'ultimo grande Bologna, e un riferimento della nazionale prima della disfatta di Middlesbrough. «I maligni dicevano che Fabbri lo preferisse anche perché aveva già in tasca un contratto col Bologna», commenta Riva, che al Nepstadion entrerà dopo otto minuti proprio per sostituire Pascutti.
Uno strano triangolo – Lo strano triangolo si ritroverà in un incrocio di destini che ha in sé la crudele ironia dei passaggi di tempo. Fabbri porterà anche Riva ai Mondiali d’Inghilterra, ma solo come aggregato, insieme a Bertini, fuori dalla lista ufficiale. Nella scuola dell’agricoltura di Durham, sede del ritiro, l’attaccante del Bologna dorme nell’ala dei giocatori che contano, Riva nell’altra. Le riserve battono costantemente i titolari nelle partite di allenamento, ma il futuro Rombo di Tuono è solo in tribuna, accanto all'amico-rivale Burgnich, quando il diagonale di Pak Doo Ik ferisce una nazione intera. «Con me si comportò da galantuomo» ha raccontato Riva al Corriere della Sera. «Il giorno dopo, benché distrutto, mi prese in disparte e mi chiese scusa. “Se avessi avuto il coraggio di farti giocare, ora non saremmo qui”. E le stesse scuse me le ripeté qualche anno dopo quando, per uno strano caso della vita, diventò il mio allenatore al Cagliari. Ma ormai, a quel punto, i nostri rapporti di forza erano diventati molto, molto diversi». Tornerà anche a Bologna, sotto la presidenza Corioni, e sarà proprio lui ad allontanare il suo ex pupillo, Pascutti, diventato osservatore, dalla società.
La prima – Al Nepstadion, per l’ultima amichevole della tournée iniziata contro Svezia e Finlandia, Riva entra dopo otto minuti. La diretta televisiva della Rai inizia con mezz’ora di ritardo per un guasto ai ripetitori austriaci. Fino all’intervallo, Carosio lo chiama Simoni, perché nella lista ufficiale a lui è attribuita la maglia numero 16, con cui è in campo Hud (riferimento a “Hud il selvaggio”, il film con Paul Newman), come i compagni hanno iniziato a chiamare il non ancora Rombo di Tuono, l’uomo che per Gianni Brera porterà la Sardegna nella geografia italiana. Giochiamo contro l’ultima grande Ungheria della storia del calcio, la nazionale di Lajos Baroti, 117 presenze in panchina tra il 1957 e il 1978, col bronzo olimpico di Roma (è accreditato anche dell’oro di Tokyo anche se non viaggiò con la squadra) e il sesto posto ai Mondiali d’Inghilterra. Riva, scriverà Vittorio Pozzo il giorno dopo nel suo commento su La Stampa, “è sotto il punto di vista tecnico ancora un po' greggio, ma egli è combattivo e intraprendente quant'altri mai. Ha un buon piede sinistro, e la situazione che ha portato Mazzola a quell'episodio del minuti finali dove gli azzurri buttarono al vento la possibilità di vittoria è stata dovuta inizialmente al suo coraggio ed alla sua valentia”. Ma cos’è successo nei minuti finali che ha trasformato la possibile vittoria azzurra nel 2-1 per i magiari?
Finale di partita – Una palla persa da Bulgarelli ha portato al vantaggio di Albert, il centravanti più carismatico centravanti ungherese: un erede della scuola Hidegkuti, un “falso nove” prima che diventasse di moda. Nella ripresa, Fabbri sposta Lodetti mezzala al posto di Rivera, leggermente infortunato, ed è proprio lui a disegnare il cross teso per Mazzola che vale il pareggio. A dieci minuti dalla fine, è ancora 1-1 quando Riva lancia un contropiede irresistibile, salta anche il portiere Gelei e appoggia a Mazzola, che arriva in corsa a porta vuota e tira alto. Sul rinvio, Kuti appoggia a Ferenc Bene, nato Balatonújlak, centravanti dell’Ujpest Dosza che in nazionale si sposta all’ala sinistra per far spazio a Albert. È l’altra grande stella della squadra, ha debuttato a 17 anni contro la Jugoslavia, e alle Olimpiadi di Tokyo ha segnato 12 gol, compreso uno nel 2-1 in finale alla Cecoslovacchia: nessun altro ungherese farà meglio nella rassegna a cinque cerchi. E un anno dopo andrà in rete in tutte le quattro partite dei magiari ai Mondiali d’Inghilterra, aprirà il 3-1 al Brasile a Goodison Park, che per molti rimane la partita migliore del torneo, e si procurerà il rigore che Meszöly trasforma per chiuderlo. Con quel nome “fatto apposta per portare fortuna” scrive l’inviato de La Stampa, ci regala solo una sconfitta. Il suo destro infila l’angolo basso alla destra di Albertosi. In un minuto è cambiata la partita. In una partita, è cambiata la storia della nazionale.