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Recoba, storia di un sinistro da dio e di un (quasi) campione

Sua moglie lo definisce pigro e romantico. Alvaro Recoba ha detto addio al calcio a Montevideo, nello stadio del suo ultimo trionfo. “Non ho mai voluto migliorarmi” diceva. Storia del miracolo Venezia, dell’amore con Moratti, di un genio incompiuto come nessun altro.
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Montevideo è una magnifica città anni Cinquanta. “E' la Buenos Aires che avemmo” scrive Borges in una poesia che dedica alla capitale uruguayana, “nostra e festosa, porta finta nel tempo, (con) le strade (che) guardano il passato più lieve”. Città che si ascolta come un verso, Montevideo, magnifica città anni Cinquanta dove nell'Ottocento si balla il Pericón mentre dall’altra parte del Mar de La Plata stanno inventando il Tango. Non poteva che nascere qui l'erede del Sudamerica con la genialità di uno Schiaffino. Il campione con più talento e meno voglia di usarlo che sia mai passato in Italia. Il campione che nel Duemila giocava come Mario Corso, senza un ruolo preciso, senza poter essere inquadrato, in un elogio della lentezza e dell'ispirazione che è il contrario del calcio moderno e della garra charrua della Celeste. Senza Montevideo, non ci sarebbe stato nessun Alvaro Recoba.

Comprato grazie a un VHS – Non ha dubbi, Alvaro, quando deve scegliere per quale squadra italiana giocare, quando deve decidere se andare alla Juventus o all'Inter, la squadra che era stata del suo idolo, Ruben Sosa. Moratti lo compra in videocassetta. È l'estate del 1997 ma sembra l'inizio degli anni Ottanta: così Viola, in un'altra stagione, in un altro mondo, quando ancora le due Germanie erano divise, quando esistevano ancora la Cecoslovacchia, l'Unione Sovietica, la Jugoslavia, comprava Falcao. È rivolto indietro l'universo di Recoba. Eppure Moratti si innamora di quel ragazzino un po' cicciotello del Nacional di Montevideo che prende palla al limite della sua area, scarta tutta la squadra avversaria ed entra in porta con tutto il pallone. C'è già tutta la sua poesia, quel lasciar intravedere la traccia di un destino. Un destino che sembra già scritto fin da piccolo.

Il rapporto con Perrone – Fin dal giorno della semifinale di un importante torneo nazionale per bambini. Il piccolo Alvaro ha portato una squadra senza pedigree in finale di un importante torneo nazionale, almeno così racconta la leggenda, ed è sempre un peccato rovinare una bella storia con la verità. Ma il giorno della finale si dimentica della partita, e va a pescare. All'intervallo, i suoi compagni sono sotto di tre gol. Mandano qualcuno a chiamarlo. Alvaro si cambia in macchina, entra all'intervallo e di gol ne segna cinque. Lo nota così Rafa Perrone, che negli anni Settanta è diventato la stella di una delle nobili d'Uruguay, con un nome che fa tanto anni Cinquanta, il Danubio. Perrone è un talento triste, inespresso. Di fronte al grande mare che avrebbe attraversato, si chiede che bisogno c'è di partire per poi non pensare che a tornare.

Firma per sette anni con l'Olympiakos Pireo, gli danno anche la cittadinanza greca, ma alla prima vacanza in Uruguay non torna più indietro. A 26 anni, la FIFA lo squalifica, compra due taxi per sopravvivere e diventa il più grande scopritore di talenti di una nazione schiacciata tra due giganti come Argentina e Brasile, costretta a sopravvivere con la forza dell'identità. Alvaro finisce al Danubio in cambio di un impianto di illuminazione per la squadra del quartiere, il Celiar, e sposerà Lorena, la figlia di Perrone.

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Prestigiatore – Non ha mai smesso di andare a pescare, Alvaro. Non ha mai cercato la celebrità, anzi. Dopo la doppietta al Brescia che ha salvato anche Simoni all'esordio all'Inter si nega a tutte le televisioni: ha un torneo di Play-station con gli amici. La vita è fatta di priorità, e né il calcio, né tanto meno l'allenamento, rientrano fra le sue. Quella prima volta in nerazzurro è un epifania. In pochi minuti, c'è tutta la storia, c'è quel che è stato e quel che sarà. Perché quella è una domenica strana, il mondo ha gli occhi al tunnel dell'Alma, alla morte di Lady Diana, Milano aspetta il debutto italiano di Ronaldo. Si ritroveranno in piedi per un uruguagio gracile e col caschetto di capelli neri, che piazza due punizioni da trenta metri, la seconda a giro, alle spalle di Cervone e ribalta la partita. È il manifesto del suo calcio. Recoba sa fare tutto, ma va in campo con l'indole del prestigiatore. Fa quello a cui nessuno pensa quando nessuno pensa possa farlo. Per dare il meglio, ha bisogno che il pubblico distolga lo sguardo dal cuore dell'azione. Come alla sua prima in nazionale: quel giorno umilia Hierro a La Coruña, quando gli occhi di tutti erano puntati su Enzo Francescoli.

Il Subbuteo di Moratti – In Italia, scrive Maurizio Crippa sul Foglio, trova “un presidente che più che una squadra moderna voleva ricostruire il Subbuteo della sua infanzia”, un presidente come Moratti che “per lui ha veramente fatto cose che non avrebbero fatto i presidenti d’altri tempi. Ma bisogna anche capirlo. Capire che cosa ha significato, per anni, sedersi in tribuna la domenica con al fianco Facchetti, con al fianco Mazzola e Suarez. E Corso. Insomma andare allo stadio coi fantasmi del padre, una bella seduta psicanalitica. E allora, se di tutti i giocatori del Subbuteo di quand’eri piccolo, l’unico che hai azzeccato era propiro lui, l’erede di Mariolino Corso, il folletto squinternato e dal sinistro divino, con gli occhi dolci e i calzettoni giù. Se insomma quello è il tuo campione del Subbuteo, vuoi fartelo scappare, proprio lui, l’unico pezzo al suo posto?”

Ovunque e in nessun posto – Ma qual è il suo posto? Non si è mai capito se fosse una seconda punta, un estremo di centrocampo, un’ala o un trequartista. Non è un 9, non è un 10, non è un 11. Dà il meglio nei sei mesi a Venezia, quando Novellino in spogliatoio annuncia la formazione, ogni volta, con 10 nomi: tanto Recoba, ripete secondo un canovaccio studiato, sta davanti e fa quel che gli pare. Peristaltico come nessuno, Recoba sa essere solo Recoba. È grande con i piccoli, segna i suoi gol più belli all'Inter nelle sfide che contano poco, vedere per credere il pallonetto da centrocampo all'Empoli. Ma il vero miracolo è al piccolo Venezia. Proprio contro l'Empoli, con i due assist a Maniero, salva la panchina di Novellino, che Zamparini avrebbe voluto esonerare nell'intervallo: il Venezia rimonterà da 0-2 a 3-2 e, da ultimo, sfiorerà la Coppa Uefa. È il suo periodo migliore, stende la Fiorentina, riserva alla Roma un gol che nessuno può dimenticare. Ma all'Inter, quando cresceva l'importanza della partita, l'impeto lascia il posto alla scapigliatura. Nessun gol al Milan o alla Juventus e quel rigore sbagliato contro l'Helsingborgs come una macchia, come una distrazione, come un'epifania.

Pigro e romantico – L'epifania di chi ha con l'allenamento lo stesso feeling di uno studente di liceo con una verifica di matematica il lunedì mattina. L'epifania di un campione che a Montevideo incontra Luis Suarez , insieme al figlio Jeremia, che non può credere ai suoi occhi. “Scusami, non volevo disturbarti, sono un tuo grande ammiratore” gli dice El Pistolero. Con quel sinistro che perfino Figo gli invidiava, ha segnato non meno di cinque gol olimpici, direttamente dalla bandierina del calcio d'angolo, che in Uruguay ancora chiamano così in memoria di quello segnato all'Argentina alle Olimpiadi di Amsterdam del 1924. Indolente sempre e in tutto, pigro e romantico anche sul campo da tennis, l'altro suo passatempo storico, con la racchetta in mano sembrava Leconte. Giocatore da serve and volley con poca corsa, perdeva solo da Zamorano, che si allenava con Marcelo Rios, altro mancino che in quanto a spreco di talento non è secondo a nessuno.

All'altezza di Dio – Lascia di fatto dopo la perla nel Clásico contro il Penarol che vale al Nacional il titolo nel torneo di Apertura 2014. Il suo compagno di squadra Gastón Pereiro si tatuerà il volto del Chino sull’avambraccio. Il presidente Eduardo Ache, presidente del Nacional, vorrebbe fargli una statua, al Parque Nacional, accanto a quella di Carlos Gardel, il più grande compositore di tango di sempre, perché, spiega, “è arrivato all’altezza di Dio”. Ha detto addio un'ultima volta proprio lì, al Parque Nacional, nella notte fra il 31 marzo e il primo aprile. E no, non è uno scherzo. Ha chiuso la porta su una stagione morta, una stagione in cui non ha mai lottato davvero per affermarsi. “Io so quanto ho fatto, e forse a me bastava così” diceva al Corriere della Sera. “Se avessi fatto qualche sforzo in più, sarebbe andata diversamente” confessava a So Foot. “Sono persuaso però che tutti gli errori sono dipesi solo da me. Non sono mai stato un ambizioso, mi sono accontentato di quello che avevo. Non ho mai voluto migliorarmi”.

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