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Cori razzisti, la proposta di Gravina: l’arbitro potrà fermare subito la partita

Il presidente della Federcalcio ha avanzato l’ipotesi di riformare l’articolo 62 delle norme interne. L’arbitro potrà anche decidere direttamente di interrompere il match: oggi invece deve aspettare le indicazioni del responsabile dell’ordine pubblico. Cosa dice la normativa attuale, quali sono i precedenti e le questioni aperte anche nella gestione del deflusso dei tifosi.
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Fermare la partita, subito. Senza aspettare gli annunci. Il presidente della FIGC, Gabriele Gravina, proporrà nel primo consiglio federale della FIGC di modificare l'articolo 62 delle norme interne della federazione (NOIF) e velocizzare i tempi per l'interruzione degli incontri in caso di cori razzisti. La questione è tornata di attualità dopo Inter-Napoli e i ripetuti cori insultanti di carattere razzista verso Koulibaly, e sarebbe interessante sapere se quegli stessi tifosi poi abbiano rivolto le stesse parole a Asamoah protagonista di un salvataggio decisivo sulla linea. Con la nuova normativa, in un caso simile l'arbitrò potrà fare la prima mossa che oggi spetta al responsabile dell'ordine pubblico.

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Cosa dice l'articolo 62

L'articolo 62 delle NOIF, ispirato a una direttiva Uefa del 2009, stabilisce che in caso di striscioni o cori di carattere discriminatorio il responsabile dell'ordine pubblico dello stadio, designato dal Ministero dell’Interno, “ordina all’arbitro, anche per il tramite del quarto ufficiale di gara o dell’assistente dell’arbitro, di non iniziare o sospendere la gara”. I tifosi dovranno essere avvisati, attraverso annunci dagli altoparlanti dello stadio, “sui motivi del mancato inizio o della sospensione”; in questo caso gli arbitri riuniscono le squadre al centro del campo. “Nel caso di prolungamento della sospensione, in considerazione delle condizioni climatiche ed ambientali, l’arbitro potrà insindacabilmente ordinare alle squadre di rientrare negli spogliatoi. L’arbitro riprenderà o darà inizio alla gara solo su ordine del responsabile (…). La sospensione o il mancato inizio della gara non potrà prolungarsi oltre i 45 minuti, trascorsi i quali l’arbitro dichiarerà chiusa la gara”.

Regole chiare che però raramente vengono applicate, ha ammesso più volte Gravina che a fine 2018 raccontava al Corriere della Sera di aver invitato il presidente dell’Aia Nicchi e il designatore di A, Rizzoli, all’applicazione rigida del protocollo.

I precedenti

L'Italia ha introdotto il regolamento nel 2013 anche sull'onda emotiva degli insulti che i tifosi della Pro Patria riversarono in amichevole Kevin-Prince Boateng, allora centrocampista del Milan. Finora, nessuna partita è mai stata sospesa definitivamente per cori razzisti in Serie A. Si è arrivati al massimo all'interruzione temporanea. La decise Rocchi per cori contro Balotelli durante Milan-Roma del maggio 2013. La decise Irrati per insulti diretti contro Koulibaly nel febbraio 2016 durante Lazio-Napoli.

"Ho fatto solo il mio dovere, me lo consente il regolamento, anzi me lo impone. Ed è l'unica possibilità per stroncare questi fenomeni" disse allora l'arbitro di Pistoia. “I cori verso Koulibaly erano davvero imbarazzanti, stavo già pensando di sospendere la gara da qualche minuto, mi sono consultato con i miei collaboratori e la forza pubblica. Sospendere la partita definitivamente sarebbe stato un segnale molto forte, il regolamento me lo consente”. A fine partita, ha aggiunto, “mi ha salutato in modo normale, mi ha fatto piacere che dopo mi abbia ringraziato per il coraggio che ho avuto ma io non ho avuto nessun coraggio, ho fatto solo quello che il regolamento mi impone di fare".

Forse più nota l'ultima interruzione decisa per cori razzisti, Sampdoria-Napoli del maggio 2018 ricostruita da Gabriele Pinna sul Corriere dello Sport che di lì a pochi giorni verrà mandato a casa e ha fatto causa all'AIA.

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La battaglia di Ancelotti

È molto scivoloso il tema della sospensione delle partite in caso di cori offensivi”, ha detto il ministro dell'interno Matteo Salvini, “rischiamo di mettere in mano a pochi il destino di tanti. Io preferisco prevenire e non lasciare potere di ricatto ad una frangia minoritaria. E poi è difficile trovare criteri oggettivi per la decisione”. Una posizione, la sua, non certo unica o isolata. Ma è in fondo anche questa visione che ha consentito a questo tipo di comportamenti di proseguire all'interno degli stadi. A novembre, dopo i cori discriminatori all’Allianz Stadium da parte dei tifosi della Juventus, la Federazione aveva annunciato maggiore severità.

Carlo Ancelotti, tecnico del Napoli, è pronto a chiedere la sospensione della partita e a portare la sua squadra direttamente negli spogliatoi. “Si è preso le sue responsabilità e dobbiamo dirgli bravo perché ci vuole coraggio per farlo” ha detto Olivier Dacourt, ex centrocampista di Roma e Inter che ha ideato il documentario “Non sono una scimmia” andato in onda lo scorso 6 gennaio su Canal + in Francia. “A un certo punto, hai bisogno di posizioni forti come è stato in grado di fare lui. E non è un allenatore di colore che lo dice, è Carlo Ancelotti. La portata è decisamente maggiore. Purtroppo negli anni gli episodi di razzismo si sono moltiplicati” ha detto. “I miei primi ricordi risalgono a quando ero più giovane e a Joseph-Antoine Bell tiravano banane. Dopo 30 anni mi rendo conto che non è cambiato niente”.

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Questioni di ordine pubblico

Darei ragione al 100% al Napoli e ad Ancelotti, ma non si possono fare le regole loro” ha detto il presidente del Coni Giovanni Malagò a Circo Massimo su Radio Capital. “Se le regole se le fa una squadra o un allenatore, è finita. Non si può fare”. Ha invocato sanzioni pesanti per le società in caso di “connivenza, complicità o tolleranza” verso questi tifosi, e sostenuto “un caposaldo della giustizia sportiva, cioè la responsabilità oggettiva. All'atto pratico: di chi è la colpa? Se la colpa è di una singola persona che fa una cosa da matto, si può dire che la società non c'entra; se lo fa tutta la curva è più difficile sostenere che la società non abbia responsabilità oggettiva”.

Il problema, inoltre, non si può circoscrivere solo all'aspetto sportivo e alla decisione dell'arbitro, spiegava Gravina. “Noi denunciamo ma poi non è facile far uscire migliaia di persone dallo stadio. Dopo la sospensione della partita poi il problema è del funzionario di pubblica sicurezza” ha detto. Considerazioni molto simili a quelle del capo della Polizia Franco Gabrielli, intervenuto sul tema a Caserta durante una mostra sulla Polizia scientifica. “Sospendere la partita sarebbe la soluzione più semplice, si dà un segnale forte ma il problema sono le conseguenze. Una volta che la squadra è andata nello spogliatoio, per la squadra il problema è finito ma per chi sta fuori a dover gestire il deflusso di decine di migliaia di persone il problema è iniziato” ha detto.

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Questioni aperte

Restano ancora delle questioni da definire per completare il percorso della riforma del regolamento voluta dal presidente Gravina. Innanzitutto, servirà definire chi dovrà avvisare l'arbitro se non si accorge personalmente di quanto sta succedendo sugli spalti: è un compito che si potrebbe affidare al responsabile dell'ordine pubblico, ma si ipotizza anche la nomina di commissario della Procura Federale. Rimane anche da stabilire se e quando fermare del tutto la partita, e assegnare la sconfitta a tavolino alla squadra i cui tifosi abbiano portato a questa decisione.

Sospendere la partita, però, rischia di essere un modo sbagliato di inseguire un obiettivo giusto, scrive Giovanni Capuano su Panorama, perché finirebbe per restituire alle curve un potere ricattatorio nei confronti dei club. “Se sospendere la partita ha il significato e valore simbolico di dire "noi non ci stiamo", va bene. Se è un passaggio di un'escalation in cui le società rischiano tanto, tutto, e il potere è nelle mani degli ultras allora no”.

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