Cerci, Candreva, Insigne: è tornata l’ala destra
L'Italia riscopre il fascino dell'ala destra. Un ruolo dimenticato per decenni, trasformato in esterno di centrocampo duttile dal 4-4-2 sacchiana e dai suoi epigoni, in tornante più terzino che attaccante nelle differenti versioni del 3-5-2, è tornato a ispirare le grandi e le aspiranti big. La Roma si è innamorata di Gervinho, interpretazione moderna del numero 7 classico capace di accelerazioni fulminee, di ritmi e movimenti sincopati e all'occorrenza di finte ubriacanti, in cui talvolta finisce per indulgere fin troppo. Il re del dribbling in serie A però rimane Cuadrado, 111 quelli riusciti dall'ala viola da inizio stagione. In estate, Montella dovrà faticare e non poco per resistere alle sirene del Barcellona e del Bayern Monaco, la squadra che in un certo senso ha avviato il ritorno in auge dei “numeri 7” in Europa costruendo buona parte dei suoi successi, fino al triplete targato Hoeness l'anno scorso, sulla classe, l'esperienza, la velocità di Arjen Robben e Philip Lahm, ala destra naturale riadattato a terzino d'attacco. Dalla destra partono anche i grimaldelli dell'attacco di Benitez a Napoli: Callejon, scartato dal Real Madrid, che ha segnato 13 gol senza rigori e aperto al San Paolo le difese di Roma e Juve, e il furetto Insigne, che ha costruito le sue fortune nello scintillante 4-3-3 zemaniano prima a Foggia poi a Pescara, dove giocava insieme a Ciro Immobile. Candidato a diventare capocannoniere e a un posto fisso nell'attacco azzurro al mondiale, Immobile deve molto a quella che attualmente si può considerare la migliore ala destra d'Italia: Alessio Cerci, anche lui autore di 13 gol. E Prandelli potrà addirittura godere di abbondanza per coprire un ruolo tornato decisivo per la sua idea di gioco. Dopo Moriero, riserva di lusso a Francia '98, dopo gli anni di Fuser e Di Livio, Zambrotta e Camoranesi, oggi l'Italia può contare anche su Candreva, con 12 gol il centrocampista più prolifico in una singola stagione della storia della Lazio. Non è un caso, considerato che perfino il Verona di Mandorlini ha costruito il suo sogno europeo sui dribbling dell'argentino Iturbe, che la Juve abbia identificato la sua priorità per l'anno prossimo in un'ala, guardando anche a Nani.
Garrincha – L'ala è un ruolo figlio del Sistema, del WM con cui Chapman ha rivoluzionato l'Arsenal e il calcio. Ma in Italia per un paio di decenni giocano tutti con il Metodo, compresa la nazionale di Pozzo, la più vincente di sempre, che allunga i reparti e inventa il contropiede. Il Sistema è un'eredità del “gioco di passaggi” di impostazione scozzese. Sono loro che hanno esportato il football in Ungheria, che negli anni '50 è la scuola di riferimento per l'Europa e dove già si inventa con Hidegkuti quella che oggi è una moda iper-popolare, il “falso nove”. È un allenatore ungherese, Bela Guttman, che in un certo senso insegna il calcio ai brasiliani. Guttman ha il merito di aver portato Eusebio al Benfica: un suo amico ne ha sentito parlare bene dal barbiere e decanta le lodi a Guttman, che lo fa trasferire dal Mozambico e lo tiene nascosto in un villaggio di pescatori per nasconderlo ai rivali dello Sporting Lisbona. Lascia il Benfica, lanciando la maledizione per cui non avrebbe più vinto la Coppa Campioni, e va ad allenare il Sao Paulo. È qui che sviluppa il 4-2-4 con cui poi Zagalo vince il Mondiale in Svezia, trascinato da Vavà, Pelè e Garrincha, la prima grande ala destra del calcio moderno. È l'icona di un ruolo da sognatori e da poeti, da ragazzi che si faranno anche se hanno le spalle strette, il ruolo in cui giocava infinite partite tra amici e colleghi Pier Paolo Pasolini, che in campo chiamavano Stukas. Una gamba più corta dell'altra per la polio, Garrincha faceva ballare tutti con una finta, sempre quella, sempre la stessa, ma eseguita a una velocità insostenibile per qualsiasi difensore del pianeta. Elogio della follia e della malinconia, sapeva interpretare il canto degli uccelli e come un uccellino in gabbia morì solo e abbandonato dopo aver rinunciato a una villa a Copacabana.
Evoluzione in Italia – L’ala destra ha avuto anche i suoi goleador, che hanno interpretato il ruolo degli artisti solitari come oggi può fare Cristiano Ronaldo, attaccante totale che con Sir Alex Ferguson a Manchester ha iniziato la transizione da ala classica, aggiungendo essenzialità e verticalità al suo repertorio tecnico. In Italia, il più grande in questo senso è stato senz’altro “l'uccellino” Kurt Hamrin, che a Firenze ha fatto dimenticare un altro poeta malinconico della fascia destra, Julinho. Lo svedese, il calciatore preferito da Antonio Tabucchi, ha giocato 423 partite e 191 reti in serie A, con Juventus, Padova, Fiorentina, Milan e Napoli e una finale Mondiale con la Svezia. Ha vinto una Coppa Campioni, una Coppa delle Coppe e uno scudetto in rossonero, un’altra Coppa delle Coppe e un paio di Coppe Italia in viola. Il tutto senza un'espulsione e nemmeno un'ammonizione, sempre con la maglia numero 7, tranne in una partita, contro la Germania, nella sfida decisiva per andare al mondiale del '66. “Facemmo 1-1 a casa loro e segnai di testa ma poi loro vinsero 2-1 in casa nostra” ha raccontato a Repubblica. Giocava nella Fiorentina di Fulvio Bernardini, che poi andrà a costruire il Bologna dello scudetto del '64, la squadra che giocava come solo in Paradiso si poteva. Nella Firenze del Rinascimento, dopo lo svedese arriverà un altro numero 7 dal genio artistico e dalla personalità ribelle, “Cavallo Pazzo” Chiarugi: estro allo stato puro, era capace di tutto, anche di incaponirsi in dribbling impossibili quando aveva la luna storta. Passato al Milan, verrà subissato di fischi ogni volta che tornerà al Comunale. Poi, arriva l'occasione del riscatto: segna a Superchi e va a esultare sotto la Fiesole con un plateale gesto dell'ombrello ai tifosi.
La farfalla granata – Erano gli anni in cui i tifosi dell'Inter si esaltavano per Jair, l'arma principale del “contragolpe” del Mago Herrera, il primo calciatore di colore ad avere successo in Italia, dove scopre la neve. Alla Grande Inter, Gigi Meroni ha segnato il gol più bello della sua carriera. Emblema del numero 7 rivoluzionario, incarnazione di un'utopia da realizzare, rinunciò alla nazionale per non tagliarsi i capelli, girava per Torino con i vestiti che si disegnava da solo, girava con una gallina al guinzaglio e si travestiva da giornalista chiedendo ai passanti cosa pensassero di Gigi Meroni. Arrivato a Torino per intuizione di Orfeo Pianella, primo presidente a ragionale da manager, nonostante l'interesse della Juventus ha scelto una squadra con la fatalità scritta nel dna. Finirà travolto da un insolito destino, che assume la forma di una Fiat 124 coupé che lo investe a tutta velocità di fronte al portone di casa. Al volante Attilio Romero, il presidente che porterà il Torino al fallimento.
Marazico – Meroni è l'interprete italiano più vicino all'inarrivabile George Best, cui seguiranno ali destre con stili diversi: corridori come Domenghini, partner di Gigi Riva nello storico scudetto al Cagliari di Scopigno, o Canè, dribblomani disposti anche alla fatica come Causio, come Claudio Sala, capace di stupendi ghirigori anche da fermo, come Fanna o come l'ultimo grande numero 7 del nostro calcio, Bruno Conti, che ha rinunciato alla promessa di un futuro in America nel baseball per quella maglia unica, per la sua squadra del cuore, e in cambio ha messo le mani sulla Coppa del Mondo.
Futuro – Una griffe che accomuna le ali di allora con quelle di oggi, con Cerci e Candreva, con Gervinho e Callejon. “Quando all'ala destra ci giocavamo noi il campo da coprire era veramente tanto” scrive Massimo Mauro, che col numero 7 ha giocato al fianco di Zico, Maradona e Platini. “Se Bruno Conti e Causio giocassero oggi sarebbero loro i veri fenomeni del calcio mondiale. Avevano una classe immensa, dribbling fulminanti: con una finta di corpo ti mandavano dalla parte opposta a dove decidevano di passare loro. Imprendibili”. Oggi, conclude, “sono meno centrocampisti e più attaccanti. Partono al massimo dalla linea di centrocampo, corrono di meno e la fantasia ci guadagna. Devo dire che hanno anche molta più forza di noi: i loro dribbling sono di forza, basati su scatti e allunghi e poi puntano molto di più la porta e cercano il gol. Noi eravamo più "romantici", ci piacevano i cross e gli assist…”.