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Serie A in rosso: 3,9 miliardi di debiti, si salva grazie a tv e plusvalenze

La Serie A per la prima volta supera i 3 miliardi di ricavi, sottolinea il Report Calcio 2019 della FIGC. Un quarto, però, dipendono dalle operazioni di calciomercato. Aumentano i costi per gli ingaggi, si radicano le posizioni di forza: chi più spende per i calciatori, più vince. Aumentano gli spettatori, anche se gli stadi restano vecchi e vuoti per il 40%.
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Per la prima volta, nel 2018 il fatturato della serie A ha superato i 3 miliardi. Crescono, però, anche i costi (216 milioni, +7,9% rispetto al 2017) e l'indebitamento complessivo, che sfiora i 3,9 miliardi. Il quadro che emerge dall'ultima edizione del Report Calcio, il censimento annuale della FIGC realizzato con Ares e Pwc, racconta di una Serie A in chiaroscuro. Si registrano più spettatori negli stadi, anche se rimangono vuoti quasi per metà, e i ricavi sono coperti per due terzi da plusvalenze e diritti tv. Il sistema, dunque, si regge su entrate per natura volatili, su basi fragili. E il gap con il resto d'Europa rimane ampio.

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Stadi: aumentano gli spettatori

L'incremento dei ricavi, si legge nel rapporto, “è in larga parte dovuto all’aumento dei ricavi da ingresso negli stadi che, grazie alla ritrovata competitività anche internazionale della massima serie italiana, hanno toccato i livelli più alti di sempre, superando i 300 milioni di euro e in crescita di oltre il 30% rispetto alla stagione precedente”. La Serie A guadagna un milione di spettatori, è vero, rispetto al 2017. Ma gli stadi si riempiono solo per il 60%, il dato più basso nei cinque principali campionati europei. La gerarchia non cambia nemmeno in occasione delle gare delle coppe europee. La stagione appena conclusa, stando alle elaborazioni dei dati di Stadia Postcards, confermerebbe la crescita nelle presenze allo stadio, con un riempimento stimato del 66% e sei squadre che superano la soglia dell'80% (Atalanta, Cagliari, Frosinone, Juventus, unica sopra il 90%, Spal e Udinese).

Anche il comportamento dei tifosi si è fatto più volatile. Gli abbonamenti, già calati del 13% dal 2012 al 2012, nelle prime due stagioni dall'entrata in vigore della tessera del tifoso, nel 201-14 coprivano il 40% dei ricavi da stadio, nel 2018 meno del 30%. In direzione opposta si muove, almeno quest'anno, la tifoseria dell'Inter che ha giù esaurito la vendita degli abbonamenti come solo altre due squadre nei primi cinque campionati europei: Borussia Monchengladbach e Bayern Monaco.

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La scelta dei tifosi italiani si può spiegare anche con lo stato delle strutture, che hanno un'età media di 60 anni e una proprietà pubblica per il 92% in Serie A. Oltre alla Juventus, il Sassuolo si conferma l'eccezione italiana: dopo lo stadio di Reggio Emilia, il patron dei neroverdi e della Mapei, Giorgio Squinzi, ha inaugurato a giugno il nuovo centro sportivo costato 12 milioni.

Più facilmente, gli spettatori scelgono di andare a vedere solo alcune partite, magari durante le festività (il Napoli ha fatto registrare l'affluenza più alta contro il Bologna il 29 dicembre), oppure perché attratti dalla possibilità di vedere i grandi campioni. Non a caso, nell'ultimo campionato, per dieci squadre il record di presenze coincide con la partita contro la Juventus. È un'altra conseguenza dell'effetto Cristiano Ronaldo, che però non maschera quanto sia significativo il potenziale economico inespresso in Italia in termini di riempimento degli stadi e fidelizzazione dei tifosi.

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Plusvalenze che passione

Quasi un quarto dei ricavi della Serie A nella stagione 2017-18, ben 713 milioni, dipende dalle plusvalenze di calciomercato. “Nell’ambito di un contesto internazionale che continua ad essere caratterizzato da una crescita progressiva dei prezzi del mercato dei trasferimenti, i club italiani si confermano capaci di valorizzare il proprio parco giocatori” si legge nel rapporto, anche “al fine di migliorare la propria sostenibilità finanziaria”.

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L'acquisto di nuovi giocatori comporta, allo stesso tempo, un aumento dei costi della produzione, dovuto in misura considerevole “agli ammortamenti per i diritti alle prestazioni sportive dei calciatori (+15,9%), al costo del lavoro (+5,8%) e alla voce “altri oneri diversi di gestione” che segna un aumento del 34,6%, determinato da una crescita significativa del valore delle minusvalenze (+47%)”. Rimane, dunque, il senso di uno squilibrio non risolto tra i crediti per la cessione dei calciatori e i debiti che derivano dall'acquisto dei nuovi. L'indebitamento complessivo della Serie A cresce anche perché molte società coprono una parte degli investimenti fissi (vivaio, calciomercato) attraverso debiti a breve termine e cessione di calciatori. L'incapacità di incrementare i ricavi ordinari rende più debole il sistema. Eloquente il caso del Genoa che ha chiuso il bilancio al 31 dicembre 2018 con un patrimonio netto negativo per 44 milioni. Solo grazie alla cessione di Piatek, si legge nella nota integrativa come riporta Marco Bellinazzo nel suo blog per il Sole 24 Ore, “ed a quasi 35 milioni di plusvalenze, è stato evitato il ricorso ad un aumento di capitale obbligatorio per l’erosione oltre il limite legale del capitale sociale”.

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Chi più spende, più vince

La sotto-capitalizzazione delle società, l'elevato indebitamento che è sintomo di una situazione patrimoniale precaria, si unisce a un'altra situazione tipica dell'industria calcio in cui lo stato patrimoniale dipende soprattutto da immobilizzazioni immateriali (valore della rosa, marchi, capitalizzazione dei costi del vivaio).

Questa oggettiva debolezza strutturale pesa soprattutto sulle squadre di medio-bassa classifica. Cinque club (Juventus, Inter, Roma, Milan e Napoli), assorbono il 54% del fatturato e il 56% dei costi della Serie A. In questo modo, si radicano le rendite di posizione e il legame tra performance sportive e parametri economico-finanziari si fa sempre più stretto, rendendo il campionato più prevedibile: i più ricchi vincono, e diventano più ricchi, gli altri si accontentano di lottare per obiettivi inferiori. Dal 2007-08, sottolinea il rapporto, solo in tre stagioni su 11 “la società vincitrice della Serie A non è risultata essere la prima nel ranking dei fatturati. Allo stesso tempo, guardando al costo del lavoro, nella sola Stagione Sportiva 2011-2012 la società vincitrice del campionato non registrava la spesa più elevata per gli stipendi del personale”.

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Le sfide per il futuro

Dunque, spendere per vincere. Che succede se non funziona? Non qualificarsi alla Champions League, per una squadra italiana che vi partecipava, riduce i ricavi in media fino a 75 milioni. In un campionato come quello italiano, in cui si sono ridotti il reddito operativo prima degli oneri finanziari (EBIT) e il risultato ante imposte (EBT) è negativo per quattro milioni, per cui le società incassano meno di quanto spendono anche al netto delle imposte sul reddito, la qualificazione alla Champions diventa un fattore decisivo per le squadre di vertice. Un obiettivo che richiede un livello di entrate e investimenti difficile da raggiungere per le squadre tra il quarto e il settimo posto. Non a caso il 65% dell’attivo immobilizzato delle società che hanno raggiunto la qualificazione per la Champions League 2018-2019 è stato investito nei diritti alle prestazioni dei calciatori. Anche se la fetta maggiore di investimenti medi arriva dalle squadre che partecipano all'Europa League.

Di fronte a un risultato netto in calo del 37,8% nell'intero sistema calcio italiano, le società si trovano di fronte alla necessità di cambiare modello manageriale, di rendere i ricavi più solidi potenziando appeal commerciale (in Serie A in media una società incassa 25,5 milioni da sponsor contro i 67,8 di una inglese), di incanalare le potenzialità della rivoluzione digitale verso la realizzazione di campagne mirate di marketing e comunicazione. Il calcio è passione e soprattutto relazione. Da queste basi può diventare business.

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