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Nella Roma che vuole fare l’americana non c’è posto per le bandiere (come De Rossi)

L’addio alla Roma del capitano e tifoso è la resa al calcio che guarda solo ai soldi. E’ l’immagine di una squadra che vuol far l’americana e dimentica chi è. I soldi però non sono tutto, e non fanno la felicità. Certo non fanno quella dei tifosi che vedono partire un uomo, un simbolo che ha rappresentato l’immagine più romantica di Roma e della Roma.
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Daniele De Rossi è la Roma. E' l'immagine migliore di Roma. Roma come vorrebbe essere. Nobile, integra, di lotta e di governo. Autentico, porta quei valori che non si discutono ma si amano. E' la Roma che fa abbracciare e sentire persone nuove. E' "Grazie Roma" in versione capitano.

La Roma americana senza bandiere

Nella Roma che vuole far l'americana, con un presidente distante come James Pallotta, in mezzo ai soldi che non hanno odore né colore, non c'è posto per uno così. Non c'è posto per bandiere come De Rossi, come prima non c'è stato posto per Francesco Totti, come alla Juventus non c'è stato per Alessandro Del Piero e Claudio Marchisio. Lascia un altro capitano che ha segnato un'epoca alla Roma. Era già successo con Agostino Di Bartolomei, niente di nuovo sul fronte occidentale.

"Ho solo un unico rimpianto, quello di poter donare alla Roma una sola carriera” diceva nella presentazione del suo libro autobiografico del 2009. "Amo troppo la Roma, viene dopo mia figlia. Non è ruffianeria. Quando segno non posso fare le orecchie alla Toni, non ci riesco. Mi viene da baciarla la Roma” aggiungeva nel 2010.

Un bacio al mondo intero dalla Roma caput mundi, con l'espressione di chi la faccia ce l'ha sempre messa, nelle vittorie e nelle sconfitte. Dopo la gomitata a McBride al Mondiale del 2006 contro gli Usa e dopo il rigore di redenzione nella finale contro la Francia che ha tinto di azzurro il cielo sopra Berlino. Ce l'ha messa quando è caduto e quando si è rialzato, con la vena gonfia sul collo e la barba che racconta una saggezza maturata negli anni.

De Rossi, tifoso e capitano

"Vi posso promettere che se e quando deciderò di andare via, verrò qui e ve lo dirò. Non mi sono mai nascosto" diceva nel 2012. E' venuto, non ha chiesto che altri parlassero per lui. Non ci sono intermediari dentro un rapporto viscerale. Nelle sue parole c'è il valore di una squadra, l'essenza della partecipazione, la grande bellezza e la forza della grandezza, quella che non si misura con i risultati. "La sensazione che si sarebbe potuto andare avanti per uno o due anni c'era, ma sono decisioni che si prendono a livello societario e globalmente: la società è divisa in più parti, sono cose che vanno rispettate e non posso uscire diversamente", ha detto.

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Con De Rossi finisce la Roma che "ci fa sentire amici anche se non ci conosciamo", quella che i tifosi con Antonello Venditti cantano ogni domenica, la Roma "che ci fa sentire uniti anche se siamo lontani, quella stella grande, grande in fondo al cielo… che grida forte dal cuore".

“ Mi è stato comunicato ieri, ma io ho 36 anni non sono scemo, e questo mondo lo conosco. Avevo capito se nessuno ti chiama per 10 mesi neanche per ipotizzare un contratto la direzione è quella. Io ho sempre parlato poco, anche quest'anno, un po' perché non mi piace, non c'era niente da dire e non volevo creare rumori che potevano distrarre. ”

L'uomo anche migliore del giocatore

Con De Rossi, se ne va il capitano che scrive a Nicolò Zaniolo "benvenuto in famiglia" prima ancora che entrasse a Trigoria, il "fratello di campo" come ha scritto Francesco Totti. Un signore, anche se non è uno con tutte stelle nella vita. Il meglio del romanismo, la bandiera che sventola nelle belle sere di coppa e non si ammaina nemmeno dopo i 7-1, perché è lì che si misura il valore delle persone. Capitano della sua anima, Invictus nel senso più alto, fermo di principi, alto di visione, non immune all'errore. Ma sempre capace di ammetterlo, di ammetterli. Lontano da ogni forma di alibi, da ogni scorciatoia di auto-assoluzione.

Grazie, gli ha scritto Alessandro Florenzi, "per la persona che sei per me, per i tuoi insegnamenti, per ogni singolo momento passato insieme. Grazie per esserci stato alle quattro di notte il 27 ottobre", il momento in cui l'amicizia si salda allo spirito di squadra. E' il 2016, durante Roma-Sassuolo si rompe il legamento crociato anteriore del ginocchio sinistro, un'ipotesi che i primi riscontri del medico sociale giallorosso Riccardo Del Vescovo aveva inizialmente messo in secondo piano. Si pensava a  una frattura del menisco, ma i controlli effettuati nella notte a Villa Stuart hanno portato un verdetto diverso, un'assenza lunga. Un buio in cui vorresti accanto un amico, qualcuno che capisca e che abbracci senza pensarci, senza che niente, nemmeno il tempo, possa frapporsi.

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De Rossi l'uomo, De Rossi l'amico, De Rossi il compagno di squadra, De Rossi il capitano. Quattro quadri di un colore solo, o meglio due, il giallo e il rosso, il cuore e la passione. Quella che continuerà, ha detto, sotto forme diverse. "Non escludo che mi vedranno intrufolato allo stadio o in qualche settore ospiti con un panino e una birra a tifare per i miei amici", ha dichiarato. "I tifosi hanno dimostrato in tanti anni di tenere a me anche in episodi non positivi. Non li ho mai cambiati per andare a vincere qualche ipotetica coppa altrove. Ho avuto opportunità di andare in squadre che avevano più possibilità di vincere ma ci siamo scelti a vicenda e sarebbe un dramma pensare ora che sarebbe stato meglio cambiare".

Una lunga storia d'amore

Meglio essersi amati, però, che non essersi mai incontrati. De Rossi e la Roma, da quella sfida contro l'Anderlecht del 2001, si sono scelti. Chiuderà dopo oltre 6400 giorni in un Roma-Parma, la partita che decise lo scudetto del 2001 che ha festeggiato solo da tifoso. Per oltre 6400 giorni De Rossi e la Roma han creduto di non lasciarsi mai. Ma questa Roma americana, che sacrifica i freddi numeri alla passione, va in un'altra direzione. Sarà anche la direzione del calcio moderno, quello delle plusvalenze e dei procuratori, del fair play finanziario e delle quotazioni in borsa. Ma è lo stesso calcio che ancora si appassiona quando i tifosi del Liverpool cantano "You'll never walk alone" o Messi continua a dipingere capolavori a Barcellona. Perché il calcio è anche identificazione, empatia. E' una storia, un cammino da condividere sotto una stessa bandiera. Non solo "soldi, soldi, soldi", come canta Mahmood. In fondo, lo sappiamo tutti come va. E dove stiamo andando.

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