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Muller, l’operaio del pallone che sogna un posto fisso

Il caso del portiere del Mainz che ha fatto causa (e vinto in primo grado) al club per essere assunto a tempo indeterminato. Ecco perché non può essere una sentenza come Bosman.
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I calciatori hanno diritto al contratto a tempo indeterminato. La sentenza del giudice del lavoro che ha dato ragione al 36enne portiere Heinz Muller, al Mainz fino allo scorso giugno, può sembrare una boutade. Ma rischia di aprire uno sconquasso che potrebbe riportare il calcio indietro di almeno una ventina d’anni.

Calcio e lavoro – Il rapporto lavorativo dei calciatori con le società è regolato dall’articolo 18 del Regolamento FIFA sullo status e il trasferimento dei giocatori. “I contratti saranno conclusi per un periodo minimo che ha inizio dalla data del tesseramento fino alla fine della stagione e per un periodo massimo di cinque anni” si legge. “I contratti di qualsiasi altra durata sono autorizzati solo se conformi alle leggi nazionali”. E cosa dice la legge nazionale tedesca?

La legge tedesca – Il giudice del lavoro di Mainz si è basato sulla sezione 14 del Teilzeit-und Befristungsgesetz, la Legge sul Part-Time e i contratti a tempo determinato entrata in vigore il 1 gennaio 2001. La norma stabilisce che il contratto di lavoro può essere limitato, per un massimo di due anni, solo in presenza di particolari condizioni. E soprattutto, al paragrafo 2, stabilisce che il datore di lavoro non può sottoscrivere un nuovo contratto a tempo determinato, per qualsiasi durata, a un dipendente che abbia già lavorato per lui in passato. Al paragrafo 1 comma 4, la legge specifica che è possibile firmare un contratto a tempo determinato se “la natura del lavoro giustifica l’imposizione di tale limite”. Si tratta di una eccezione nata per tutelare la condizione dei lavoratori in caso di professioni usuranti, la cui interpretazione si è estesa ai contratti tra le case discografiche e gli artisti. La Corte Federale del Lavoro, però, è sempre stata piuttosto riluttante a estendere ulteriormente l’applicazione di questa eccezione. E il giudice ha confermato questa tendenza. Nel giudicare il caso di Muller, arrivato al Mainz dal Barnsley nel 2009 con un contratto triennale poi rinnovato per altri due anni nel 2012, ha stabilito che nel calcio professionistico non si può giustificare su questa base l’imposizione di un contratto di lavoro a tempo determinato.

Futuro – Il Mainz ha già preannunciato il ricorso in appello. Il quadro, sottolinea Leonardo Grosso, vicepresidente della FIFPro, intervistato da Marco Bellinazzo del Sole24Ore, va monitorato, perché si potrebbe arrivare al punto in cui un calciatore debba comunicare al club l’intenzione di trasferirsi, come un qualsiasi dipendente, con la difficoltà di bilanciare l’esigenza del giocatore con la possibilità di licenziamento. Di certo una decisione del genere avrebbe solo valenza nazionale. In Italia, per esempio, la fondamentale legge 91 del 23 marzo 1981 sul professionismo sportivo indica in cinque anni la durata massima dei contratti con gli sportivi maggiorenni, ridotta a tre anni per i minorenni, senza porre limiti al numero di rinnovi successivi: una disposizione integrata senza alcuna variazione nell’articolo 28 delle Norme Organizzative Interne della FIGC.

Nuova sentenza Bosman? – Il giudice del lavoro tedesco non ha ritenuto l’interpretazione restrittiva della normativa nazionale in contraddizione con l’articolo 48 del Trattato di Maastricht sulla libera circolazione dei lavoratori nell’UE, alla base della sentenza che ha aperto la più grande rivoluzione nel calcio moderno: la sentenza Bosman del 15 dicembre 1995. I fatti su cui si è espressa la Corte di Giustizia Europea risalivano al 1990 quando il centrocampista Jean-Marc Bosman del Royal Club di Liegi, rifiuta di rinnovare il contratto con ingaggio ridotto al minimo sindacale. Viene iscritto nell’elenco dei calciatori trasferibili e, come da regolamento federale, viene stabilita un’indennità di trasferimento, calcolata in 11.743.000 franchi belgi. Nessuna squadra si fa avanti, e Bosman contatta l’US Dunkerque, una squadra di serie B francese, che lo ingaggia per 100 mila franchi, con un premio di ingaggio di altri 900 mila, con una indennità da 1,2 milioni e un’opzione irrevocabile per il trasferimento definitivo dopo un anno per ulteriori 4,8 milioni di franchi. Il Liegi, però, dopo l’accordo, torna sui suoi passi: non è convinto che il Dunkerque possa pagare, e non richiede alla federazione i documenti necessari per il transfer. E il giocatore fa causa alla squadra perché, sostiene, l’imposizione di un’indennità di trasferimento da parte di una società con cui non è più sotto contratto, costituisce un ostacolo alla sua libertà di circolazione.

Protezione e procuratori – Il Mainz ha già preannunciato che ricorrerà in appello contro la sentenza. Se dovesse essere confermata, però, la decisione porterebbe ad almeno un paio di riflessioni. Innanzitutto, sarebbe un danno particolarmente grave per i procuratori e gli agenti. Ma sarebbe soprattutto un laccio, uno di quei “ties that bind”, per dirla con Bruce Springsteen, quei nodi indesiderati che legano, che bloccano, che quasi imprigionano. Perché la normativa nazionale restringe di molto le possibilità di un contratto a tempo determinato, con l’obiettivo di proteggere i lavoratori dipendenti, di aumentarne le tutele e le garanzie. Un calciatore ha davvero bisogno di una protezione simile? Restare legato a vita a una società dovrebbe rimanere come una possibilità, frutto di una libera scelta del singolo, non il risultato di una imposizione da parte di un giudice. E le società tedesche si troverebbero nella condizione di dover in caso rinegoziare contratti a tempo determinato con i giocatori, purché nell’alveo della legge, e sperare di non trovare tanti Heinz Muller in rosa.

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