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Mandela, la Makana Football Association e la vittoria del calcio sull’apartheid

Pelé ed Eto’o sul campo della Lega costituita dai prigionieri della segregazione razziale e riconosciuta dalla Fifa nel 2007. La Rainbow Nation esplose con il successo degli Springboks nel rugby e il Mondiale del 2010 in Sudafrica.
A cura di Maurizio De Santis
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La leggenda di Pelè accanto alla stella di Samuel Eto’o, i campioni di ieri e di oggi, Nelson Mandela e le più alte cariche del calcio internazionale, pochi anni fa, si ritrovarono su un campo arido, gibboso e pieno di buche a tirar pallonate in una porta arrugginita. Era, ed è, il rettangolo della Makana Football Association, la Lega costituita da un gruppo di prigionieri a lungo ai margini degli organismi internazionali fino all’affiliazione onoraria alla Federazione avvenuta nel luglio del 2007. A sancirla fu Jack Warner, il vice presidente della Fifa, che spedì tra i pali corrosi il primo pallone della cerimonia simbolica e spostò i riflettori sulle contraddizioni di un Paese pronto a ospitare il Mondiale del 2010.

Green Point di Cape Town, una camera con vista tra Signal Hill e l’Oceano Atlantico. Più che uno stadio, una finestra spalancata sulla storia. La coda dell’occhio conduce fino all’orizzonte e fissa un isolotto battuto dal vento a una manciata di chilometri dalla costa. Robben Island, una prigione di terra brulla e filo spinato che per quasi trent’anni è stato il luogo di segregazione per migliaia di reclusi politici, il carcere di massima sicurezza, il simbolo dell’apartheid e di un’integrazione codificata come impossibile da un regime totalitario, la linea del colore che ha tracciato un solco nella memoria dei rapporti sociali e interraziali. Lì, Nelson Mandela v’è rimasto per diciotto anni. Lì, nel ghetto costruito dai bianchi, sono stati deportati i sogni di una generazione immatricolata, senza volto e senza nome. Lì, tra le pieghe di silenzi troppo duri da raccontare a corredo di violenze e repressione, s’è formata buona parte della classe dirigente dell’attuale Sudafrica. Lì, in un lembo di sassi e nuvole, c’è tutta la forza evocatrice della resistenza dei neri al colonialismo europeo. Lì, oggi che l’Unesco ha riconosciuto quel territorio come patrimonio dell’umanità, la “dias”, l’imbarcazione che traghettava i “criminali per la pelle” in quel fazzoletto d’inferno a cielo aperto, trasporta turisti.

Discipline come il cricket e il rugby, espressioni della moralità e della cultura britannica, erano un segno di civilizzazione e uno status distintivo per la borghesia medio-alta e capitalista rispetto alla diffusione esclusivamente popolare del football, capace di unire sotto una stessa divisa minatori, operai, immigrati, uomini di lingue, culture e provenienze differenti. Molto è cambiato da allora: le diverse comunità sembravano destinate a non incontrarsi mai – vicine ma separate e circoscritte dalle strade – lontanissime l’una dall’altra per l’apartheid che le classificava con metodica maniacale. Anni dopo il regime della segregazione, l’organizzazione dell’edizione iridata del campionato di rugby e la vittoria degli Springboks, la “Rainbow Nation” di Mandela dette appuntamento con la storia al Soccer City di Johannesburg: lo stadio da novantacinquemila posti che assomiglia al calabash, la zucca che le donne sudafricane usano come recipiente, appoggiandolo in testa, per trasportare l’acqua.

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