Le proteste degli ultrà sono il prodotto finale del calcio malato

E alla fine è arrivata la squalifica: due turni al campo di Marassi, obbligo da parte del Genoa di restare lontano dal proprio stadio per le prossime partite casalinghe, cioè fino a fine stagione. Giocandosi ciò che resta della salvezza con un handicap non da poco ora che la retrocessione – merito del Lecce – è a soli 2 punti a 5 gare dalla conclusione. Due turni al campo di Marassi, 11 Daspo ai tifosi che domenica pomeriggio hanno celebrato il funerale del calcio italiano. La pena era prevista dal regolamento: allontanamento dagli impianti sportivi per i prossimi 5 anni e obbligo di firma in questura, pena la reclusione. Così si conclude la bruttissima giornata durante Genoa-Siena, ma non senza strascichi, polemiche e riflessioni.
La protesta, senza violenza – Permetteteci una premessa doverosa: protestare è sempre stato un diritto di chiunque, per qualsiasi motivo o torto si creda aver subito. Ma farlo nel rispetto della legge, è un dovere. E chi va oltre la linea marcata da regolamenti e norme, sbaglia e deve pagare. Detto questo, a Marassi i tifosi del Genoa – poco più di un centinaio – hanno fatto bene a protestare, feriti nella passione e nell'orgoglio di vedere la propria squadra umiliata dall'ennesima partita fallita, in un finale di stagione tragicomico sul bordo del baratro quando sia a giugno che a gennaio si proclamavano altri obiettivi, sogni europei. Una protesta che – malgrado si sia scritto di tutto e il contrario di tutto – non è sfociata nella violenza, in atti di teppismo, in disordini con le forze dell'ordine presenti. Non c'è stata invasione di campo quando avrebbero potuto; non ci sono stati spintoni, cori offensivi, minacce e provocazioni; non ci sono stati tafferugli nè prima, nè dopo, nè dentro nè fuori lo stadio.
In Genoa-Siena tutto si è consumato in quei 50 minuti di protesta, di rabbia urlata in faccia ai propri giocatori (quelli del Siena rientrati negli spogliatoi sotto il tunne ‘presieduto' dagli ultrà, sono stati applauditi), contro coloro che non erano più "degni" di indossare i colori del club più antico d'Italia, e contro una dirigenza e un presidente che aveva superato ogni limite, operando di certo non per il bene del Genoa ma secondo altri parametri imprenditoriali personali.
Non si può chiedere ad un tifoso di protestare in silenzio. Non si può chiedere ad un ultrà di farlo in modo composto, seduto in tribuna, corrucciando il volto. e così è stato: quella di Marassi è stata una ‘rivolta' civile che ha raggiunto l'obiettivo, fermando ciò che per chi era in tribuna non era più da considerarsi onorevole e dignitoso. Non a caso, nessuno dallo stadio se n'è andato, nemmeno – così dicono le cronache – i tifosi più calmi, quelli delle tribune, le famiglie con i bambini. Il fine degli ultrà a cavalcioni delle transenne di sicurezza era tutt'altro: fermare la partita, far togliere la maglia ai propri giocatori ricordando loro il luogo, il tempo e il fatto di rappresentare una realtà che non poteva nè doveva venire dimenticata o addirittura oltraggiata. Questo è stato il significato di pretendere lo sfilarsi della divisa da parte dei propri (ex) beniamini. Null'altro, visto che poi l'incontro è ripartito senza ulteriori problemi d'ordine pubblico.

L'infrangersi delle regole – Ma quegli stessi ultrà, spinti dalle motivazioni a loro più nobili, hanno comunque sbagliato. Fermando una partita, superando le barriere di Marassi, pretendendo ad oltranza la maglia dei giocatori. Esistono delle regole che, piaccia o meno, vanno rispettate. Sempre. E in quei 50 minuti, le regole del calcio sono state infrante e per questo è corretto che oggi quegli stessi ultrà paghino con le pene previste. Avrebbero potuto manifestare il proprio scontento altrove, in un altro momento, in un altro modo. Hanno scelto la via a loro più semplice, la più naturale, la protesta nello stadio, durante l'incontro. Non potevano farlo, non dovevano farlo ma l'han fatto. L'episodio si deve chiudere lì, senza esagerazioni nè demagogie populiste. Anche perchè se è vero com'è vero che i tifosi rossoblù hanno sbagliato è pur vero che sono figli legittimati di un calcio che da sempre fa e disfa le proprie regole, sconfessando ogni giorno se stesso.
La protesta è un prodotto stesso di chi oggi, dai palazzi federali, dalla Lega alle stesse società, pontifica il buon senso e il rispetto delle regole. Che per primi infrangono. Calciopoli, Passaportopoli, Scommessopoli. I gol fantasma, i ricorsi al Tar e alla giustizia ordinaria. Dirigenti condannati e fermi al loro posto, presidenti di Lega con doppi incarichi, teorie del complotto e dossier sui torti subiti. Leggi sugli stadi che non arrivano, bilanci in rosso, scandali sulla connivenza tra società e procuratori per frodare il fisco. Eccolo l'elenco lunghissimo di un imbarazzante calcio del Terzo Millennio.
E gli ultras dove sono? Cosa c'entrano in tutto questo?
Ma soprattutto cosa possono imparare da questi insegnamenti? E' proprio questo il punto: sentire Petrucci o Abete gridare "vergogna" e parlare di un "punto di non ritorno" è pura demagogia. Ascoltare Preziosi che moralizza su sentenze esemplari, con la "galera" e una "squalifica del campo" è imbarazzante. Sembra di assistere alla barzelletta del bue che dà del cornuto all'asino. Se è vero che gli ultrà hanno infranto le regole, il calcio ha il diritto di poterli riprendere e accusare se per primo è esempio di regole infrante ogni giorno?

I perchè della protesta – A pensar male si fa peccato ma spesso si arriva alla verità. Così, peccando, proviamo a dare una motivazione alla base della ‘follia‘ ultrà. Di fronte avevano una società che non aveva mantenuto promesse nè obiettivi, con lo spettro della retrocessione alle porte. Un presidente che negli ultimi tre anni ha utilizzato le sessioni di calciomercato per far ‘girare' in una serie infinita di compravendite e scambi, giocatori su giocatori senza un progetto reale. Con la sensazione forte di coltivare interessi privati attraverso lo sfruttamento della posizione che conferisce il ruolo di presidente di una società di serie A. Che Preziosi non sia uno stinco di santo lo si sa da tempo e a Como qualcuno potrebbe ricordare qualche aneddoto in materia. Ma restando alla realtà del Genoa c'è da chiedersi cosa ci sia dietro all'attacco frontale del numero uno del Grifone verso gli ultrà che hanno protestato a Marassi, in una reazione personale decisamente eccessiva rispetto a quanto realmente accaduto.
Tanto da augurarsi che il campo di Marassi venisse squalificato (come è stato) "per poter giocare lontano in pace". O per avere un capro espiatorio in caso di scivolata in serie B, passando come l'unica parte lesa della situazione; costruendosi un alibi perfetto, così come la scelta personale dell'ennesimo cambio di tecnico, in corsa, a 5 turni dalla fine, togliendo di mezzo frettolosamente Malesani (bis), oggetto della rabbia ultras, senza pensarci troppo e perdere tempo prezioso. Dunque, anche quel "non ho paura di 60 teppisti" di Preziosi stride fortemente con la realtà dei fatti: se non l'avesse davvero perchè cedere al ‘ricatto' dei tifosi e cambiare tecnico? Per prepararsi il terreno delle scusanti e aprire la stagione degli alibi?
I tifosi hanno sbagliato. Certo. Ma c'è una bella differenza tra chi sbaglia per troppo amore e chi lo fa per mero interesse.