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Le cause dello sciopero della Serie A: le ragioni della Lega Calcio e delle società

Davanti al ‘potere’ dei giocatori, le società si tutelano blindando i contratti a proprio vantaggio. Sono troppi i rischi che corrono e alti gli ingaggi che pagano. Ma anche tra di loro, ci sono presidenti che pensano troppo ai propri interessi.
A cura di Alessio Pediglieri
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ragioni sciopero

Se da un loro punto di vista le motivazioni dei calciatori sembrano sacrosante, dalla parte dei presidenti non appartengono solamente torti. Dopotutto, le società si vogliono maggiormente tutelare davanti alla sempre più evidente ‘autogestione‘ dei calciatori attraverso scelte personali o di procuratori interessati. È anche per questo motivo che la Lega ha respinto in ultimo, la proposta del contratto ‘ponte‘: nessuna modifica agli articoli 4 e 7 e campionato al via e solo dopo le discussioni con calma. Da Via Rossellini è arrivato un secco ‘no'. In questo articolo analizzeremo le motivazioni delle società.

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MANCANZA DI CONFRONTO E DI DIALOGO – Il problema dei presidenti non é comunque il discorso sulla volontá o meno di poter ‘vessare‘ i giocatori ritenuti eventualmente ‘colpevoli‘, legittimati da una revisione del contratto che li tutelerebbe di fronte alla legge: chi lo vuole fare, lo fa giá. Piú che carta bianca sull'articolo 7 e su altri punti collaterali, il vero nodo che ha prodotto l'ingorgo è che Maurizio Beretta non ha alcun potere esecutivo ed è semplicemente il mandante delle decisioni prese dall'Assemblea dei presidenti. Se gli stessi rifiutano la proposta dell'Aic, com'é avvenuto ad agosto, nella quasi maggioranza assoluta è evidente che sia inutile poi che le discussioni avvengano tra Tommasi e lo stesso Beretta senza che vi sia un confronto con nessun altro presidente. Cosí come non puó essere costruttivo – e lo sciopero dei calciatori ne è la conferma – che se c'è qualcuno, come in molti pensano di Claudio Lotito, che si sia fatto paladino per primo della linea dura contro Aic e calciatori, questi non esca allo scoperto ma mini da dentro la compattezza e la stabilità di una Lega già tenuta insieme con la colla.

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IL PUGNO DURO DELLA LEGA – In questo senso suonano come un monito forte le dichiarazioni di Tommasi alla vigilia del Consiglio di Lega a ridosso della prima giornatadi serie A, lo stesso Consiglio che avrebbe dovuto valutare se firmare o no la proposta scritta presentata dall'Aic: "Il no dell'assemblea di Lega di oggi, prescinde dalla possibilità di firmare: le modifiche proposte per noi non erano accettabili, ma chi le ha proposte non ha lasciato la delega per la firma e ha chiuso l'assemblea. Non giocare non fa bene a nessuno, ma qualcuno ha interesse che non si cominci". Forse una semplice esagerazione o forse un estremo tentativo di venire smentito, fatto sta che nessuno tra le societá l'abbia fatto, lasciando un atroce dubbio che alimenta sospetti. Da parte loro, comunque, i presidenti non possono più permettersi di essere ‘sotto scacco‘ da giocatori che di anno in anno hanno acquistato una coscienza collettiva che, se da un lato è un dato positivo per la crescita strutturale di categoria, dall'altro ha permesso alle ‘mele marce‘ di approfittare delle situazioni coltivando i propri interessi.

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IL DIRITTO DI GESTIRE GLI ALLENAMENTI – È proprio questo punto che vogliono i club: stringere un po' di più la corda attorno a dei ‘dipendenti‘ che godono di troppi privilegi mentre le societá devono far fronte a gestioni sempre più difficili, cercare ricavi aprendo nuovi fronti aziendali e dovendo fare i conti anche con il sempre più pressante fair play finanziario. Tutti problemi che non toccano i giocatori, forti di contratti che li tutelano e che mettono spesso le società allo sbando rifiutando eventuali ridimensionamenti di ingaggi o richieste di cessioni di fronte a offerte concrete che permetterebbero ai club di risanare i bilanci. È questa, da parte loro, l'interpretazione all'art.7 cui i presidenti non vogliono rinunciare: l'insindacabile diritto della societá di gestire la rosa a propria disposizione secondo dettami tecnici e scelte aziendali che evadono dalle volontá dei singoli calciatori. Insomma, se un giocatore non rientra più in un progetto il club vuole poterne gestire la situazione limitando i danni e cercando di non svalutare la risorsa sotto lauto contratto.

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IL DIRITTO DI AUTOTUTELA – Lo stesso dicasi per il contributo di solidarietà: se i giocatori come dicono, sono pronti senza indugio a pagarlo nel momento in cui diverrà legge, perchè – ha chiesto esplicitamente la Lega in nome di Beretta – non lo mettono per iscritto sin da ora fugando ogni dubbio? Forse, se l'avessero fatto, lo sciopero si sarebbe scongiurato visto che qualche linea presidenziale si sarebbe ammorbidita. Senza queste garanzie, le societá si sentono ‘nude‘ e indifese: in un momento storico in cui il calcio italiano non riesce più a concretizzare alcun successo di caratura internazionale, i club sono i primi a rimetterci direttamente. In caso di fallimento, un giocatore puó sempre cercare un nuovo ingaggio o un contratto all'estero. La societá no e un presidente ha solo due scelte: o fallire o restare sotto tiro da parte dei propri tesserati che, scendendo loro in campo in prima persona, giá ‘gestiscono‘ le sorti di un club. Dunque, perchè tutelarli ulteriormente anche con un contratto che guarda soltanto in una direzione? Domanda legittima cui non si sta dando peró una risposta.

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IL TALLONE D'ACHILLE: I LITIGI – Lo stesso Abete, presidente FIGC, persona super partes, chiamato ad arbitrare la difficile situazione, ha dato contro ai presidenti che – dal canto loro – hanno spesso offerto il fianco nel confermarsi un gruppo disunito, rissoso e al limite del paradosso. Poi, l'attacco all'atteggiamento di alcuni presidenti di società non si è fatto attendere da parte del presidente federale: "Purtroppo siamo molto provinciali. Il calcio italiano è all'interno del circuito internazionale di Uefa e Fifa: pensare che le idee del singolo possano modificare il sistema mondiale significa essere fuori dal mondo e avere una mentalità provinciale. Il singolo imprenditore, presidente di una società di calcio, se non riesce a trovare all'interno della Lega la quadra sulla norma sugli accordi televisivi, come può pensare di cambiare le regole mondiali? È un problema metodologico, la governance non funziona. Dovremmo stare più attenti alla qualità del nostro calcio- ha concluso amareggiato Abete – se ci concentrassimo sugli aspetti tecnici per rimanere competitivi in campo internazionale, sarebbe meglio".

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DIFENDERSI DAI GIOCATORI PER TUTELARE I PROPRI INTERESSI – Per le società, la ridiscussione del contratto collettivo sotto vari punti d vista è un passo delicatissimo. I club vorrebbero che i giocatori venissero controllati sotto l'aspetto medico da dottori sociali e non ci fossero le ‘fughe‘ da specialisti più o meno confidenti; richiedono un maggior metro di controllo e di intervento nella vita privata dei calciatori, troppo spesso motivo di prestazioni negative e deleterie per i club; pretendono la possibilitá di gestire i pagamenti di uno stipendio altissimo anche in base alle contingenze del momento (infortuni, scadenze, obiettivi societari). Tutti punti che in questi giorni non si sono trattati ma che fanno parte integrante alla richiesta di Tommasi e dell'Aic. Non a caso, la questione è talmente spinosa e delicata che un tentativo di  apertura era arrivata da uno dei presidenti più "caldi" del momento, De Laurentiis promotore del famoso contratto ‘ponte' poi rifiutato dalla stessa Lega:  a testimonianza che anche tra i ‘padroni‘ c'è chi è pronto a scendere a compromessi per il bene del sistema. E questa è l'unica via accessibile per il futuro.
(2 – continua)

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