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Lazio-Roma, l’innovazione di Maestrelli e la zona di Liedholm

Quando si parla del derby do Roma non si può non far riferimento a due dei tecnici più importanti della storia dei club capitolini. Maestrelli era “Uno più undici” che portò diverse innovazioni tattiche negli Anni ’70 e consegnò il primo tricolore alla Lazio. Liedholm era il “Barone” che con la sua zona portò i giallorossi sul tetto d’Italia per la seconda volta.
A cura di Vito Lamorte
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Domenica allo stadio Olimpico si giocherà il derby di Roma numero 165 della storia. La stracittadina della Capitale viene ricordata spesso per il folklore delle tifoserie e per la rivalità viscerale che scorre lungo le rive del Tevere ma nella storia di queste due gloriose società ci sono stati due personaggi che hanno segnato, a loro modo, l'evoluzione del calcio nella nostra Serie A: Tommaso Maestrelli e Nils Liedholm.

I Maestrelli boys

La Lazio che nel 1973/1974 vinse uno scudetto era formata da un gruppo di ragazzi molto particolari e dimostrò che si poteva trionfare anche facendosi beffe della logica e della razionalità. Pulici, Petrelli, Martini, Wilson, Oddi, Nanni, Garlaschelli, Re Cecconi, Chinaglia, Frustalupi, D’Amico: questa è una formazione che i tifosi biancocelesti, e non solo, a distanza di anni sanno recitare ancora a memoria. Una poesia indimenticabile. Era l'undici del primo scudetto biancoceleste, solo due anni dopo la promozione in Serie A.

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Si trattò di un vero e proprio capolavoro tattico da parte di Tommaso Maestrelli. L'allenatore pisano anticipò di qualche anno l'evoluzione tattica in Serie A, che sarebbe arrivata un po' più tardi, e fece scoprire la "mobilità" di tutti gli uomini in campo a discapito del cosiddetto "calcio all'italiana". I suo ragazzi mostrarono come una squadra può muoversi all'unisono e in maniera compatta in ogni situazione di gioco. L'uomo ovunque era Re Cecconi, diretto in maniera egregia da Frustalupi e Nanni, che componevano la cabina di regia del gioco biancoceleste. Chinaglia era l'ariete che beneficiava dell'agilità di Garlaschelli e dell'acume di D'Amico. Davanti a Pulici, portiere di grande sicurezza, si muovevano Petrelli, Wilson, Oddi e Martini.

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Tommaso Maestrelli era, probabilmente, l’unico uomo sulla faccia della terra in grado di trasformare una banda di matti in undici calciatori che lottavano per la maglia della Lazio. Un mix di forza e tecnica con il minuscolo Mario Frustalupi a dettare i tempi ai suoi compagni e ordire trame di gioco come gli antichi centromediani metodisti. Una squadra stupenda o come l'ha ribattezzata Franco Recanatesi "Uno più undici". Una bella storia, purtroppo non a lieto fine, viste le tragedie che hanno colpito metà dei componenti di quella squadra. Ma sicuramente una storia diversa dalle altre, che merita, appunto, di essere inserita come le più belle del calcio nostrano.

Liedholm e la "zona"

La Roma del secondo scudetto viene definita della "zona" e non è un caso: la squadra giallorossa era perfetta in qualsiasi zona del campo, aveva un'identità molto precisa ed era il frutto di una sapiente miscelatura di tanti elementi. Il direttore di questa orchestra che portò il tricolore nella Capitale era il Barone Nils Liedholm, che credeva nel progetto del presidente Viola e da tempo aveva un'idea che gli frullava per la testa, un modo nuovo di giocare, più spettacolare che se praticato bene poteva portare grossi risultati, la "zona".

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Il Barone trovò la quadratura difensiva con un giocatore veloce e potente nei recuperi come Pietro Vierchowood a cui si affiancava Sebino Nela. Il fulcro del gioco giallorosso, manco a dirlo, era Paulo Roberto Falcao, intorno a cui giravano tutti. Nonostante le chiavi della manovra fossero in mano al brasiliano, ai suoi fianchi c'era gente del calibro di Ancelotti e Prohaska. L'uomo goal era Roberto Pruzzo, bomber per vocazione e per posizione, coadiuvato dal talento purissimo di Bruno Conti e Maurizio Iorio, giocatore discontinuo ma molto concreto. Il mai dimenticato Agostino di Bartolomei completava la difesa, agendo come libero, insieme a Maldera davanti a Franco Tancredi.

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La zona era tutto il contrario della mentalità corrente del calcio ma si trattava di un processo che doveva essere graduale: prima era l'avversario da controllare, adesso il nuovo riferimento erano la palla e i compagni. Il Barone pretendeva che tutti i suoi giocatori, anche i difensori, fossero abili tecnicamente e sempre in grado di impostare l’azione. Per capire la sua rivoluzione si tenga presente che, allora, ai difensori era demandato il solo compito di marcare gli attaccanti avversari e, al massimo, potevano spedire il pallone in tribuna. Rari erano i casi di giocatori della retroguardia in grado di cavarsela palla al piede. Anche per migliorare la loro confidenza con l’oggetto il Barone sottoponeva i suoi ragazzi a lunghe sedute di tecnica individuale.

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