La Premier League conquista l’Europa: solo i ricchi vincono?
La Premier League, il campionato più ricco del mondo, ha portato quattro squadre su quattro in finale nelle due coppe europee nell'anno della Brexit. Non è un caso. Certo, potersi permettere un ingaggio medio per giocatore più alto del 36% rispetto a quanto avviene nella Liga aiuta. Ma spendere di più non è l'unico parametro per il successo. Lo dimostra il Tottenham, la terza squadra negli ultimi vent'anni di Premier League a contenere il costo degli ingaggi sotto la soglia del 40% di ricavi. Eppure la squadra di Pochettino è arrivata a Madrid a giocarsi il titolo contro il Liverpool che, secondo la Annual Review of Football Finance 2019 di Deloitte, ha registrato il più cospicuo aumento di ricavi rispetto al 2018.
Manchester spende di più, ma non vince in Europa
Nel 2018-19, indica il Global Sports Salary Survey di Sporting Intelligence, l'ingaggio medio di un calciatore in Premier League sfiora i 4 milioni di dollari. Il Manchester United offre i salari più alti, 8,5 milioni di dollari di media, ma i costi per gli ingaggi rappresentano metà dei ricavi. Il Manchester City, che ha vinto il titolo per il secondo anno di fila, offre 7.8 milioni di dollari di ingaggio medio. Secondo il CIES Football Observatory, Guardiola ha a disposizione la rosa più pregiata d'Europa: complessivamente i Citizens valgono quasi un miliardo di euro (976 milioni). Manchester United e Liverpool entrano in top-4, Chelsea, Arsenal e Tottenham tra le prime dieci. Non stupisce che le squadre del Big Six (Arsenal, Chelsea, Liverpool, Manchester City, United e Tottenham) abbiano accentrato 44 dei 45 posti nella top-3 della Premier League negli ultimi 15 anni, con la sola eccezione del Leicester di Ranieri campione d'Inghilterra nel 2016.
La Premier, conferma l'analisi di Sporting Intelligence, paga ingaggi fuori mercato. Un rischio distorsivo più volte indicato come un possibile allarme per il futuro europeo dal presidente della Liga spagnola Javier Tebas. Nei primi cinque campionati europei militano circa 2600 calciatori che costano alle squadre, in media, 5.9 milioni di euro l'uno (questo il valore medio dell'ingaggio lordo). In Ligue 1, però, l'ingaggio medio lordo si ferma a 3,3 milioni, in Bundesliga a 3.9, in Serie A a 5, in Liga a 5.3, in Inghilterra esplode a 10.7 milioni.
C'è una differenza, scrive Omar Chaudhuri, capo della sezione Football Intelligence di 21st club, asvisory di diverse squadre di calcio, “tra le prime sei del calcio inglese e le altre. Le squadre del Big Six pagano ‘solo' il 20% di in più di ingaggio medio rispetto a club europei di qualità comparabile. Le altre, invece, pagano il 110% in più di avversarie di simile valore”.
La ricchezza della Premier League
La ricerca del talento sul mercato, che finisce per penalizzare i calciatori cresciuti nel vivaio rimasti in campo nella stagione 2017-18 per il 7% dei minuti disponibili, e l'over-price che le squadre di bassa classifica possono garantire, nascono dalla pressione che il rischio di retrocedere comporta in una lega ricca come la Premier. Un campionato dove l'Huddersfield, ultimo e retrocesso, incassa dai diritti tv più della Juventus. Il rapporto tra la media ingaggi più alti (Manchester United) e la più bassa (Cardiff) è di 6,82:1. Il divario è cresciuto rispetto al 2017-18 (5:1), segno di un campionato leggermente più polarizzato che comunque riesce a mantenere un livello di equità sconosciuto agli altri campionati del Big 5 dal punto di vista della distribuzione delle risorse. Con l'aumento del 30% dei diritti tv esteri dal 2019-20, che fanno salire dell'8% il valore televisivo complessivo della Premier League, e il nuovo meccanismo di revenue sharing delle competizioni Uefa, il gap potrebbe allargarsi ancora.
Dal 1992, l'anno del distacco dalla Football League, la Premier League non ha mai smesso di crescere. I ricavi sono saliti anno dopo anno. Nel 2018, rispetto alla stagione precedente, sono cresciuti di 297 milioni di euro, metà dei quali sono il risultato di più estesi e lucrativi contratti commerciali. Nel 2018 i ricavi medi delle squadre del Big Six sono aumentati dell'11% (461 milioni di sterline), mentre le altre hanno conservato lo stesso livello medio di ricchezza (147 milioni).
In Inghilterra la ricchezza paga
Ricavi pesantemente investiti sul mercato, come dimostrano i 2,4 miliardi di sterline spesi per l'acquisto di nuovi calciatori (+47% rispetto alla stagione precedente). È un altro segno della feroce competizione nella Premier League, in cui spendere di più per assicurarsi i calciatori migliori è condizione apparentemente sufficiente a garantire risultati migliori. Non è un caso che le sei squadre con gli ingaggi più alti nel 2017-18 abbiano concluso ai primi sei posti la stagione 2018-19, rileva l'agenzia Deloitte nel suo rapporto. Un fattore che ha spinto le undici squadre non comprese nel Big Six e rimaste in Premier League ad aumentare i costi per gli ingaggi più rapidamente e in misura maggiore rispetto all'aumento dei ricavi. Si spiega così come i costi complessivi delle rose in Premier superino la soglia del 70% degli introiti che la Uefa considera il livello di guardia per la sostenibilità del sistema.
“La posizione in classifica in Premier dipende da quanti soldi spendi” diceva già nel 2013 l'allora tecnico del West Ham, Sam Allardyce, ricordava l'Economist nel maggio 2016. Il Leicester aveva appena vinto il campionato e per una volta smentito la teoria di Allardyce. Più che un'inversione di tendenza, l'apparizione di un cigno nero, un'eccezione. Dal 1995-96 al 2016, infatti, chi ha vinto il campionato ha speso 2.25 volte più della squadra mediana in Premier League. E le quattro regine degli ingaggi del periodo (Arsenal, Chelsea, Manchester United e Liverpool) hanno chiuso nelle prime quattro posizioni nell'80% dei casi. Solo due, invece, le squadre capaci di entrare in top 4 con ingaggi sotto la media del campionato: le Foxes di Ranieri e il Newcastle nel 2001-02.
Ricchezza e risultati, un circolo virtuoso
La conclusione di Allardyce, e i dati che la supportano, rinforza una tesi già espressa negli studi di Barajas e Rodríguez, che nel 2010 si sono concentrati sul calcio spagnolo, o nelle paradigmatiche ricerche di Stefan Szymanski, professore di Harvard che ha collaborato anche con Umberto Lago e Alessandro Baroncelli al libro “Il business del calcio” nel 2004. Qui veniva esposta la teoria del circolo virtuoso, per cui l'acquisto di giocatori migliori, che richiedono ingaggi più alti, migliora le prestazioni sportive e i risultati economici della squadra. Cresce così la spinta alla diversificazione delle fonti di ricavo per alimentare il costante aumento degli introiti finalizzato all'investimento in talento, all'acquisto di giocatori. Tuttavia, esiste anche un punto di equilibrio da non superare.
Gli affari, ha detto a Rivista Undici Dino Ruta, head dello Sport Knowledge Center di Sda Bocconi, funzionano “se le economie alle spalle delle grandi squadre corrono: non è la bellezza del singolo campionato a determinarne il valore, ma è la forza del tessuto economico sul quale si regge la competizione a rendere sostenibile il business sportivo”. Un business unico nel suo genere in cui il risultato è comunque aleatorio ma ha effetti sulle dinamiche finanziarie e sulla prospettiva di risultati futuri. Perché i successi non sono garanzia di conti in ordine. Ma l'instabilità finanziaria rimane un passo decisivo verso l'insuccesso.