La maledizione del 2 luglio, Germania dopo Francia. E che peccato perdere Conte
Una data funesta. Un dolore che raddoppia. Un ricorso storico che beffardo ritorna, un conto da pagare con la sorte. Ancora, di nuovo, come sedici anni fa. Il 2 luglio del 2000 l'Italia di un allenatore dal passato juventino, da giocatore prima e da tecnico poi, perdeva l'Europeo in finale al golden gol, tradita da Trezeguet che sarebbe diventato simbolo della Juventus. Da Zoff a Conte, dalla Francia rivale alla Francia cornice il passo può essere breve. In un altro 2 luglio, un altro allenatore dal passato e dal cuore juventino, da giocatore prima e da tecnico poi, perde un altro Europeo, ai quarti, dopo una serie di 18 rigori. E fa ancora più male.
L'eredità di Conte – Conte lascia l'azzurro per il Blue del Chelsea, lascia una Nazionale di uomini, sconfitta ma non battuta. Una Nazionale che mai aveva mostrato una fisionomia così chiara, netta, riconoscibile come in questi europei. Aiutato certamente dagli uomini simbolo, i guerrieri della difesa BBC, il trio Barzagli-Bonucci-Chiellini e da un capitano leader come Buffon, Conte è riuscito in un capolavoro tattico impossibile per tutti gli altri allenatori visti in Francia. Nel breve tempo che ha avuto a disposizione con il gruppo, è riuscito non solo a infondere una mentalità e una convinzione che hanno portato tutti a dare qualcosa di meglio, qualcosa di più. Ha fatto giocare una Nazionale come una squadra di club,ha trasformato l'Italia nella versione più vicina alla sua prima Juventus.
Calcio all'italiana – I lanci di Bonucci, le chiusure di Parolo versione Marchisio, i tagli senza palla di Giaccherini, le due punte alte anche in fase di non possesso e vicine per dialogare, dare profondità, dare sempre una linea di passaggio, un appoggio, un triangolo all'esterno di centrocampo. L'Italia che ha sfoderato il meglio del calcio all'italiana, che solo una lettura superficiale può associare al catenaccio, deriva della visione di Rocco e di Herrera, tutt'altro che difensivista. E' un osservatore, Conte, che ha spiato, che ha imparato, che ha "rubato" segreti per imparare il mestiere di vincere. E l'ha affinato nella periferia prima, e nel centro del calcio italiano poi, con la briga e il gusto di allenare la squadra del cuore, di farla vincere in un altro ruolo dopo le battaglie da condottiero in campo. Di trionfare ancora, e ancora, dove vincere è l'unica cosa che conta.
Italia come la Juve – Quella sua Juve è stata dominata davvero un giorno, da una squadra sola, dal Bayern Monaco. Questa Germania, più che all'aggressività trabordante di quel Bayern di Heynckes, guarda all'ultimo Guardiola. Aspetta e traccheggia, in un 3-4-3 di certo inusuale che rinuncia alla superiorità numerica nelle zone cruciali per lo sviluppo del gioco di Low, il cuore del centrocampo e le fasce, nel nome di una densità insostenibile alle spalle dell'unica punta. Un 3-6-1 che stritola senza fare davvero male se non per venti minuti, merito delle marcature preventive, delle contromosse di Conte che attira il boa tedesco, lo ingolosisce e lo avvelena, lo addormenta e lo tramortisce. E' l'Italia croce e delizia, tormento ed estasi, ragione e sentimento, orgoglio e pregiudizio. Tanti, troppi, quelli spesi alla vigilia da una stampa tedesca incapace di andare al di là dello stereotipo gastronomico, di uscire dalla retorica stantia della pizza e del mandolino, degli spaghetti e della mafia, con il peso ulteriore di attirare reazioni uguali e contrarie a base di wurstel e crauti.
Uomini e spirito di squadra – Anche questo fa gioco, anche questo fa strada. L'accerchiamento, la sindrome da Fort Apache, aiuta, compatta, cementa. Chiedere a Zoff e all'Italia degli abatini, chiedere al Porto o all'Inter del Mourinho versione Special One, chiedere a Obdulio Varela, il capitano dell'Uruguay che prima del Maracanazo mostra i giornali con i titoli che già annunciano il Brasile campione del mondo. La regola è sempre la stessa, valeva allora e vale oggi, a Bordeaux e qualunque latitudine: non guardate sugli spalti, è giù, sul campo, che le partite si vincono e si perdono. Purtroppo, dopo quasi mezzo secolo, l'orologio della storia ha iniziato a girare dall'altra parte. Purtroppo stavolta è valso anche per noi quel che da decenni vale per gli inglesi. E' vero, le partite si giocano giù, sul campo. E' vero, si vincono undici contro undici. Ma alla fine vincono i tedeschi. E nelle lacrime di rabbia e commozione, di commiato e frustrazione, una parola trionfa nella mestizia, consola nella delusione di una notte amara: uomini.
Compattezza – Perché questa è una Nazionale di giocatori con le qualità che vengono da dentro, che vengono prima e contano di più di un controllo di palla, di un gol sbagliato, della paura di tirare un calcio di rigore. E' da questi dettagli, dalla disponibilità ad aiutare il compagno e l'idea complessiva di squadra, anche fuori ruolo, anche quando la stanchezza annebbia i pensieri e smeriglia l'orizzonte, che si giudica un giocatore. E questa Nazionale che magari non sarà di prima scelta, cucita soprattutto a centrocampo con chi c'era, con chi era rimasto integro abbastanza da reggere la spedizione Oltralpe, ha dimostrato che la qualità si vede, si sente, si tocca. Che devi rischiare la notte, la malinconia, la solitudine, devi rischiare una vita scomoda se vuoi gustarne fino in fondo tutto il suo profumo.
25 partite per la storia – E adesso anche quelli che nel comprensibile, finanche doveroso, iato del tifo e delle barricate in nome di una bandiera, hanno finito per riconoscersi nell'allenatore che nella storia recente meglio di tutti ha raccontato un'identità, un destino, un estremismo cromatico, del simbolo di quella Juve che divide l'Italia nelle due categorie più durature del pensiero sociologico: gli juventini e gli anti-juventini. Gli sono bastate 25 partite per entrare fra i primi dieci commissari tecnici più vincenti nella storia della Nazionale. Gli sono bastati due anni per essere un condottiero rispettato, ammirato, per quelle stesse qualità che lo trasformavano nel bersaglio principe dell'attacco, della derisione dall'altra metà del cielo pallonaro. Nel paese che gioca e vive le partite come guerre, niente come il calcio è più di una questione di vita o di morte. Nella società fluida senza riferimenti solidi, la maglia azzurra è l'ultimo baluardo condiviso.
Dall'azzurro al Blue – Quella maglia che Conte un po' per ragioni di spirito, un po' per ragioni di sponsor, ha chiesto di indossare come segno di devozione e attaccamento. Perché gli uomini passano, le maglie restano. A Conte sono bastate 25 partite per entrare nella rosa dei dieci commissari tecnici più vincenti nella storia della Nazionale, per dare un'impronta, per lasciare una traccia. E forse, come le cose importanti, ne capiremo fino in fondo il valore ore che sostituirà il Blue del miliardario Chelsea all'azzurro dell'orgoglio nazionale.
Che perdita per il nostro calcio – Piaccia o no, Conte è un valore aggiunto, e non serviva certo l'Europeo per confermarlo. Antipatico come chi vince, antipatico perché vince, è un allenatore che qualche tifoso magari non vorrebbe nella sua squadra ma nessuno vorrebbe trovarsi di fronte sulla panchina avversaria. Il duello con lo United di Mou e Ibra è già lanciato, è già il fuoco d'artificio promesso di una Premier League che aspetta le risposte della politica per capire il suo futuro. E le prime parole, a caldo, del ct da ex raccontano meglio di tutte lo spirito di chi non si rassegna alla sconfitta, alla caduta. E' un arrivederci, non un addio. Quel che oggi chiamiamo dolore, sarà soltanto un discorso sospeso.