Klopp torna a casa a piedi. Cose dell’altro mondo e di un altro calcio
Jurgen Klopp lascia lo stadio del Borussia Dortmund a piedi, dopo aver perso 3-0 in casa davanti a settantamila tifosi, essere stato eliminato dalla Champions e, per giunta, nella stagione peggiore della sua squadra in Bundesliga. Zaino in spalla, mani in tasca, testa china, andatura caracollante come un lavoratore che ha finito il turno e – dopo una giornata di ‘fatica' – non desidera altro che staccare e tornare a casa. Cammina da solo nella notte, un po' rimugina, un po' impreca (perché quando la fortuna si mette di traverso puoi solo provare a sorriderle di rimando), scuote il capo e fa una smorfia che è un mezzo sorriso per rispondere al saluto della gente che lo riconosce. E lo lascia tranquillo. Niente insulti, né capannelli, niente contestazioni o battute fuori luogo.
Nulla, se non il rispetto per il professionista che ha dato tutto (ma è stato costretto ad arrendersi alla forza della Juventus), la riconoscenza per l'allenatore che ha creato dal nulla un progetto divenuto una squadra, poi un fenomeno e infine un modello che molti – compreso noi italiani così impazienti, miopi e incapaci di valorizzare le nostre risorse – vorrebbero esportare.
Nulla, se non il rispetto per l'uomo che avverte sulle spalle il peso della sconfitta, la fine di un ciclo e vuole confondersi tra i comuni mortali dopo essere stato sotto i riflettori, davanti ai microfoni in tv ad ammettere di essere stato inferiore, a spiegare – con l'anima finita in riserva – che diamine sia successo alla squadra, alla sua squadra, franata assieme al muro giallo e alle certezze di un'epoca giunta al capolinea. Vuole essere lasciato in pace, ne ha diritto a prescindere. Lo merita anche se battuto. Cose dell'altro mondo e di un altro modo di vivere (il calcio). Che noi non meritiamo. Non adesso, non ancora.