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Justin Kluivert, Mauro Burruchaga e gli altri: sulle orme di papà in Serie A

Patrick Kluivert avrebbe preferito che il figlio Justin restasse un altro anno all’Ajax. Ma ha preferito la Roma. Al Chievo arriva Mauro Burruchaga, il figlio di Jorge, regista di centrocampo che guarda a Redondo e ammira Zidane. Allungano la lista di figli d’arte in A, con Di Francesco, Chiesa, Simeone.
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Papà gli aveva consigliato di aspettare almeno un altro anno. Ma ha capito che era arrivato il momento di andar via. Lui si chiama Justin, ha 19 anni, firma gli autografi sulle magliette con il suo account Instagram, @justhink, e ha ricordi solo vaghi della carriera del padre, di quel Patrick Kluivert passato dal Milan prima di fare la storia a Barcellona. Kluivert junior rinnova il lungo romanzo del talento per il calcio che si trasmette per via genetica, che attraversa le generazioni e unisce le famiglie. Un romanzo che si arricchisce di storie in Serie A.

Justin Kluivert: il cognome non mi pesa

Quarto figlio di un calciatore dell'Ajax ad aver indossato la stessa maglia del papà, ha segnato il primo gol in Eredivisie a dieci anni e un giorno dall'ultima rete del padre. Primo 18enne a segnare una tripletta per l'Ajax dopo Kieft nel 1981, rivela il Romanista, ha già debuttato in nazionale maggiore. È al momento il più affermato di tre fratelli (il maggiore Quincy è nelle giovanili del Vitesse, il minore Ruben ha giocato nell'under 17 dell'Ajax).

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Patrick gli ha consigliato innanzitutto di divertirsi, e di rimanere nel club dove si è fatto un nome per imparare meglio il gioco, di non farsi attirare dal canto delle sirene dei soldi da teenager. “Non farti distrarre dagli altri giocatori o dal pubblico” gli diceva, “se hai la palla, fai quel che devi, fai quel che fai sempre. E qualche volta, sii anche egoista, tienila per te”. Justin condivide la dedizione del padre, non le caratteristiche: è più minuto, più basso, più agile e preferisce giocare da ala sinistra.

Diverso da papà, più ala che centravanti

“Non lo vedo diventare un centravanti” diceva Peter Bosz, che l'ha allenato all'Ajax prima di tentare un'esperienza breve e fallimentare l'anno scorso al Borussia Dortmund. “E se anche dovesse giocare da numero 9, sarebbe completamente diverso dal padre. Però lui gioca meglio sulla fascia, e può stare sia a destra sia a sinistra”.

È “rapido e flessibile”, come si è raccontato all'Independent. È maturato presto, gli ha fatto senza dubbio bene la guida di Dennis Bergkamp, e quel cognome non lo vive come un peso. “Voglio tenere alto il nome dei Kluivert” ha detto al quotidiano olandese Algemeen Dagblad. "Magari farò un po' meno di lui, magari un po' di più: ma voglio arrivare al top”.

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Mauro Burruchaga, la tecnica passa di padre in figlio

Per Mauro Burruchaga, il figlio di Jorge che ha corso con tutta l'Argentina dietro le spalle nella finale mondiale di Messico '86, quel cognome all'inizio ha pesato. Ma al River, già dalle giovanili, anche prima di esordire in prima squadra grazie a Marcelo Gallardo, si è sentito semplicemente uno del gruppo, e quel cognome ha cominciato a non essere più così importante. “Sono un giocatore tecnico, un centrocampista intelligente, che pensa” si raccontava a El Pais Menos Algunos, sito argentino dedicato ai Millionarios. “Posso giocare da regista arretrato o da mezzala, a destra o a sinistra. Mi piace orchestrare il gioco e ordinare le posizioni senza palla”.

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Mancino dai piedi buoni, ammira Ronaldinho e Zidane ma da quando ha iniziato a essere schierato di più come regista arretrato ha visto molti video di Redondo. Lo aiuta la tecnica di base, affinata alla Escuelita de Fútbol “Angel Amadeo Labruna”, intitolata a uno dei cinque tenori della Maquina, l'attacco del River Plate degli anni Quaranta che ha fatto la storia del calcio argentino.

Nella numerosa famiglia del Burru, lo sport c'è sempre stato. Jorge è un fanatico di tutte le discipline, guarda la boxe e il ciclismo, negli anni al Nantes si è innamorato del Tour de France. Una delle sue sorelle ha sposato Nestor “el Pipo” Rossi, uno dei primi grandi numeri cinque del River e della nazionale poi smantellata prima del Mondiale di Svezia nel 1958. In Argentina il 5 è il numero dei registi arretrati: era originale, diceva di lui Alfredo Di Stefano, perché è un fenomeno. Un altro dei suoi figli, Roman, si è appassionato di più a Roger Federer e Novak Djokovic. A 12 anni era uno dei dieci migliori prospetti della nazione per la sua classe d'età, si allenava al Parque Sarmiento, dove l'Italia ha perso in Coppa Davis non troppo tempo fa, con Tito Vázquez. Oggi è tra i primi 250 under 18 del mondo.

Chiesa e Simeone, gioielli viola

Solo tre anni fa, Burruchaga disputava la Al Kass Cup, in Turchia, un torneo internazionale under 17 con il River Plate che batteva anche la Juventus, prima di perdere nei quarti contro l'Arsenal. In quella squadra, oltre a Mauro Burruchaga, giocavano Nahuel Gallardo, il figlio del Muñeco, e Gianluca Simeone, secondo figlio del Cholito passato alla Fiorentina. Anche se, a suo dire, l'inventore del Cholismo in famiglia è del tremendo nonno Carlos che ora non si perde una partita dei viola da Buenos Aires, raccontava ad aprile alla Gazzetta dello Sport.

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Il Cholo gli ha insegnato che ogni giorno si può migliorare, in viola ha incontrato un altro talento che ha fatto molto presto a togliersi di dosso l'etichetta scomoda di “figlio di”, Federico Chiesa. “Mio padre dice che si diventa giocatori veri quando si superano le trecento presenze in Serie A” diceva al Corriere della Sera: ne ha già superate 60, e siamo solo all'inizio del viaggio.

Si sono ormai smarcati dalla storia dei padri Luca Antonelli, figlio di quel Roberto che al Milan chiamavano Dustin per la somiglianza con Hoffmann, e Federico Di Francesco. Papà Eusebio, ha raccontato al Messaggero, è sempre stato pignolo come padre ma consigli da allenatore non gliene ha mai dati. “Papà ama mettersi in discussione, sa convivere con le critiche, è uomo aperto, per nulla rancoroso. Per me è un modello calcistico, oltre che di vita” ha ammesso.

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In Serie B si allunga la dinastia Gudjohnsen

La Serie B, in mezzo al caos della definizione dei calendari, regala una bella storia. A La Spezia è arrivato Aaron Guðjohnsen, il figlio di Eiður che, il 24 aprile 1996, durante un Estonia-Islanda, entrò al posto di suo padre Arnór. Partito minorenne, e già papà, per il Belgio, dove vinse la classifica cannonieri, sbagliò il primo rigore per l'Anderlecht nella finale di Coppa Uefa 1984 persa contro il Tottenham. I cognomi, in Islanda, sono patronimici, racconta Fulvio Paglialunga nel suo libro “Un giorno questo calcio sarà tuo”, ma non nel suo caso, il suo è di origine danese. Svein Aaron è il primogenito della famiglia, ma c'è un secondo figlio, Daniel Tristan, che è nato dieci anni dopo quella sostituzione del 1996 e ha già fatto meraviglie, dicono, nella cantera del Barcellona. Perché il calcio è anche questo, è anche il mistero senza fine bello in cui il talento attraversa le generazioni.

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