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La rivoluzione di Johan Cruijff, l’artista del calcio totale

Per i giornalisti Simon Kuper e David Winner “Cruijff ha plasmato l’Olanda del dopoguerra. E’ l’unico calciatore ad aver compreso gli Anni Sessanta”. E’ il simbolo di una rivoluzione, di una visione che ha cambiato la storia del calcio.
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Johan Cruijff ha un cancro ai polmoni. "Per motivi di privacy, per Johan e per la sua famiglia, e visto che i test medici non sono stati ancora completati, non ci saranno ulteriori commenti in questo momento" si legge nella nota diffusa dal suo portavoce. "Ci auguriamo che la privacy di Johan e della sua famiglia venga rispettata. Sarà pubblicata una dichiarazione quando gli esami saranno terminati". Così si esprimeva a ottobre scorso la famiglia dell'ex campione olandese scomparso il 24 marzo del 2016 all'età di 68 anni, dopo aver lottato contro il cancro per circa cinque mesi.

Nel 2013, l'editore Tirion Sport pubblica uno dei tanti libri fotografici sugli indimenticabili anni di Johann Cruijff all'Ajax. Non si aspetta la reazione del calciatore totale. Cruijff fa causa all'editore perché il libro viola il suo diritto alla privacy, potrebbe ledere la sua reputazione e soprattutto va contro il suo “diritto all'auto-determinazione”. Eppure, esattamente quarant'anni prima, proprio per quel diritto all'auto-determinazione, il “parlare, parlare, parlare” con cui da sempre gli olandesi si governano, è finita la storia dell'Ajax, la squadra che ha cambiato il calcio mondiale.

L'inizio della leggenda – Una storia che cambia passo nel 1969, quando Cruijff perde la prima finale di Coppa dei Campioni contro il Milan di Rocco. È l'ultimo acuto del passato contro il futuro che avanza. Il tecnico Rinus Michels ha perfezionato le idee degli inglesi che l'hanno preceduto in panchina, Jack Reynolds e Vic Buckingham: l'attenzione al controllo di palla e alla tecnica individuale, la visione dell'attacco come miglior forma di difesa, la richiesta che tutte le squadre giovanili giochino nello stesso modo. Idee che il Cruijff allenatore riprenderà a Barcellona con una squadra costruita a sua immagine e somiglianza, con giocatori piccoli, nessuno sopra il metro e ottanta, ma di grande intelligenza e qualità tecnica. Perché, come gli ha insegnato il “Generale” Michels, nel calcio quello che conta di più è il passaggio.

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Il calcio totale – Il calcio totale, scrive Jonathan Wilson nella Piramide rovesciata, “aveva a che fare con lo spazio e con il modo per riuscire a controllarlo. Volendo sintetizzare: allarga il campo quando sei in possesso di palla e sarà più facile mantenere il possesso; rimpicciolisci il campo quando è la squadra avversaria ad avere il possesso di palla e diventerà molto più difficile per gli avversari mantenerne il possesso”. È il manifesto di un popolo che ha sconfitto l'acqua, che ha una visione tutta sua dello spazio e delle distanze. Un'idea che avrebbe potuto nascere solo in una nazione calvinista abituata a vedere l'affermazione e l'espressione di sé come una virtù, negli anni della rivoluzione hippy, per cui mettere in discussione l'ortodossia diventa la norma.

Un manifesto dell'Amsterdam del 1969, tra movimenti giovanili di protesta e il bed-in di John Lennon e Yoko Ono, molto lontana dalla citta in cui, come scrive Albert Camus, “per secoli i fumatori di pipa hanno visto scendere la stessa pioggia cadere sullo stesso canale”. “Il calcio totale non è un modulo” spiega Arie Haan a Hugh McIlvanney dell'Observer nel 1974, “ci sono almeno cinque o sei giocatori coinvolti in ogni situazione. L'ideale sarebbe che lo fossero tutti e undici, ma è difficile. Qui, anche quando sei lontano 60 metri dalla palla, stai comunque giocando”.

La fine dell'Ajax – Per quell'idea, e Michels lo sa, servono interpreti speciali, di quelli che non sanno che farsene di occhi normali. E Cruiff ne diventa l'anima, l'emblema. “E' il primo giocatore che ha compreso di essere un artista” scriveva Hubert Smeets, che ha voluto e ottenuto giocare col numero 14 anche quando le maglie andavano dall'1 all'11, senza deroghe. Per Simon Kuper e David Winner, “Crujff ha plasmato l'Olanda del dopoguerra. È l'unico che ha davvero compreso gli anni Sessanta”. Eppure, il modello-Ajax, una squadra che esalta la creatività individuale inserita in un solido contesto di sistema, contiene già le ragioni del suo fallimento. Nell'estate del 1973, i lancieri festeggiano la terza Coppa dei Campioni di fila con tre capitani diversi: Velibor Vasovic a Wembley '71. Piet Keizer a Rotterdam '72. Johan Cruijff a Belgrado '73. Marinus Jacobus Hendricus Michels lascia la squadra per diventare ct dell'Olanda, e all'Ajax arriva Knobel.

Come tutti gli anni, durante il ritiro pre-campionato al De Lutte, piccolo e tranquillo hotel olandese vicino al confine tedesco, i giocatori votano il capitano. Si chiudono in una stanza, senza l'allenatore, e scrivono su un foglio il nome di uno dei tre candidati: Cruijff, Keizer, Barry Hulshoff. Hulshoff prende zero voti, Keizer una dozzina, Cruijff, a seconda delle versioni, tra i tre e i sette. I compagni hanno sminuito l'autorità di uno dei più grandi calciatori di tutti i tempi. Appena finita la riunione, telefona al suocero e agente, Cor Coster: “Chiama subito Barcellona. Io da qui me ne vado”.

Monaco 1974 – Ruoli e numeri si confondono anche nella clockwork orange al Mondiale del '74. Undici calciatori-drughi che sembrano, come i cervelloni per il protagonista dell'omonimo film, affidarsi all'ispirazione. Davanti al tabaccaio Jongbloed, che gioca col numero 8 ed è bravissimo coi piedi, grande amico di Cruijff che ha convinto anche Michels a convocarlo. giocano un debuttante, Wim Rijsbergen, e Haan, un centrocampista spostato dietro per far ripartire l'azione dalla difesa: ogni riferimento a Guardiola e Mascherano adattato difensore è puramente causale. Michels assegna i numeri ai giocatori in ordine alfabetico: Cruiff fa eccezione e si tiene il 14. Sulla sua maglia, e sui pantaloncini, non compaiono le tre strisce dell'Adidas, sponsor della nazionale olandese. Ce ne sono solo due, perché è testimonial di un altro marchio.

È in quel Mondiale che inventerà, che nascerà la “Crujff turn”. È il minuto 23 del match valido per il gruppo 3 contro la Svezia al Westfalenstadion di Dortmund. Haan, da centrocampo, apre a sinistra per Cruiff, che ha un primo controllo un po' affannoso, la palla gli scivola leggermente sulla destra. La tiene sotto la suola, si gira con la schiena alla porta e il terzino Jan Olsson gli è dietro, illuso da un impercettibile abbassamento della spalla sinistra di Crujff. 99 volte su 100 è la scelta giusta, ma quella no: finta solo il cross, accarezza la palla con l'interno destro, si gira in un attimo e si libera verso la riga di fondo. Un pezzo d'arte, che però non porterà a nulla, l'azione non darà nessun esito. Il destino dell'Olanda, forse la nazionale più forte di sempre a non aver mai vinto un Mondiale, è già tutto scritto qui.

È l'epifania di una finale in cui l'Olanda giocherà i 3 minuti migliori nella storia del calcio, andrà in vantaggio su rigore di Neeskens, per fallo su Crujff, ma finirà per specchiarsi in se stessa. Perché quella non è una partita come le altre, perché Van Hanegem nella guerra contro i tedeschi ha perso il padre, la sorella e due fratelli, e non è l'unico nel blocco Ajax, per tradizione la squadra degli ebrei di Amsterdam, ad avere fotogrammi tragici della guerra.

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Filosofia – Quattro anni dopo, Cruijff torna a mettere se stesso davanti alla squadra, davanti alla nazionale, ma in un senso ben diverso, più tragico. Non parte per i Mondiali d'Argentina, e la protesta politica non c'entra: i ladri gli hanno svaligiato casa e hanno minacciato moglie e figli con una pistola. E le priorità in quei giorni cambiano. Il gesto di un campione larger than life, di una personalità troppo sfaccettata per essere inquadrata in una definizione, in una categoria. Eppure, a posteriori, la visione del Cruijff allenatore può tornare a illuminare anche certe curve nella memoria del Cruijff calciatore.

Resta la sua visione del calcio come molteplicità nell'unità, una visione insieme olistica e specialistica. “Perché nel baseball diciamo ‘quello è un pitcher, quell'altro è un terza base' e nel calcio semplicemente ‘quello è un calciatore'? Ognuno è diverso, e da allenatore devo guardare alle qualità individuali”. E attraverso le qualità creare un meccanismo perfetto, una clockwork di un altro colore. “All'Ajax ho imparato che un errore non è mai un problema, è un'opportunità” dirà da tecnico del Barcellona. E per questo orienta la sua visione al pressing. “Bisogna attaccare gli avversari più forti quando hanno la palla. Se li attacchi velocemente, sbaglieranno di più. Per questo il nostro primo difensore deve essere il centravanti. È fondamentale leggere la situazione e cambiare mentalità velocemente, così recuperiamo la palla prima e corriamo di meno. Sta tutto nel modo di pensare, nel modo di riorganizzarsi”. Il calcio, in fondo, è questione di geometria. E nessuno lo sa meglio degli olandesi.

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