Euro 2016: la generazione d’oro unisce il Belgio
La chiamano “la generazione Vuitton”. Ha deluso al Mondiale due anni fa. Si prepara, però, all'Europeo da numero 2 del ranking FIFA. Il Belgio di Wilmots ha trasformato in una barzelletta il vecchio cliché per cui sarebbe impossibile elencare dieci belgi famosi: dopo il Cannibale Eddy Merckx, Magritte, perfino Tintin e Poirot, l'elenco si complica, anche senza arrivare a scavare e scovare Leo Baekeland, inventore della Bakelite. E insieme ha cambiato la percezione della nazione attraverso il calcio. “Siamo sempre stati il piccolo Belgio”, ha detto Eric Reynaerts, capo tifoso ufficiale dei Diavoli Rossi. “Sempre modesti, ogni volta. Adesso cominciamo a capire che possiamo essere grandi”.
Unione – Ce n'è un'altro, però, di cliché, che ora diventa ancora più valido: “Solo il re e il calcio riescono a unire questo Paese”, a unire la nazione di Molembeek e della capitale d'Europa, dell'inclusione e delle barriere. La nazionale diventa così, da una parte l'eredità migliore e più facilmente condivisa di un passato coloniale ancora poco esplorato (il periodo di Leopoldo II, il Congo Belga, lo “zoo umano” alla Fiera Mondiale di Bruxelles del 1958), dall'altra l'immagine di un futuro possibile. È la nazionale di Marouane Fellaini, di Mousa Dembele, di Benteke, figlio di un comandante militare congolese, di Kompany (out da Euro 2016 per infortunio), anche lui figlio di immigrati africani, che porta nel cognome la storia di una famiglia impiegata come servitù in una miniera d'argento. È la nazionale di Lukaku, figlio di quel Robert nazionale dello Zaire al Mondiale del 1974, che nell'ultima amichevole pre Europeo ha firmato la rimonta sulla Svizzera insieme al gioiellino De Bruyne, “scartato” da Mourinho al Chelsea, esploso prima al Wolfsburg poi al City per quella sua capacità di essere ovunque, di leggere il gioco in anticipo, di disegnare assist da efficienza paretiana: senza ricami, dritti al risultato. “Molti l'hanno definita generazione d'oro” ha ammesso Wilmots. “Ho dei grandi giocatori, quest'anno siamo più maturi rispetto al Mondiale. Ma per essere davvero una generazione d'oro dovremmo prima vincere un titolo”.
Immigrazione – L'immigrazione dall'ex Congo Belga diventa un problema a Bruxelles alla fine degli anni Ottanta. Arrivano borghesi istruiti che scappano dalla guerra civile e l'antropologo Johan Leman viene incaricato di progettare la prima politica di accoglienza dei migranti. Il calcio diventa il primo strumento nella visione dell'accoglienza di Leman. “Sapevamo che non avremmo potuto trovare lavoro per tutti subito e che non tutti sarebbero diventati ingegneri” ha spiegato. “Ma potevamo creare una speranza, e lo sport è uno di questi strumenti. Perché lo sport crea modelli di riferimento”. In ogni comune, fa costruire un campo in cemento per il “football de rue”. Così inizia anche Kompany che nel 2013 ha comprato una società di calcio da strada, il Brussels BX e stabilito un sistema di incentivi economici per convincere i ragazzi a non abbandonare la scuola.
Calcio e identità – Ma in Belgio anche il calcio è terreno conteso, specchio di un'identità divisa fra due comunità giustapposte malgré eux, dove le denominazioni delle squadre riflettono la commedia della distanza, la tragedia della separazione. Introdotto dai francesi intorno al 1880, il football si divide alla fine degli anni Venti quando l'arbitro Jules Vranken crea la Flemish Football Association, la federazione fiamminga, che sparisce dopo la presidenza di Robert Verbelen, un nazionalista di destra che fonderà le SS fiamminghe dopo l'invasione nazista del 1940. Ma in una nazione in cui ancora nel 2006 il leader delle Fiandre definiva il Belgio “un'accidente della storia senza valore intrinseco”, la sostanza va al di là della forma. E la regola non scritta di convocare in nazionale uno stesso numero di giocatori fiamminghi e francofoni resiste.
Rivoluzione – I Diavoli Rossi rappresentano oggi lo specchio dei tempi di una nazione che ha cambiato modo di pensarsi. Una nazione di 11 milioni di abitanti, che non ha vinto nulla dai tempi dell'oro olimpico del 1920, quando la Cecoslovacchia abbandonò la finale dopo il primo tempo in protesta contro l'arbitro. Una nazione che dal quarto posto dell'altra “golden generation” al Mondiale del 1986 (la squadra di Pfaff e di Scifo, “il piccolo Pelè”) è ripiombata nella mediocrità della periferia del calcio europeo. E allora ha capito, è stata costretta a capire, che la valorizzazione dei vivai, la costruzione di talenti da esportazione non è una scelta, è un dovere. “Non abbiamo altra scelta” diceva due anni fa a Grantland il responsabile del settore giovanile del Genk, un'antica città di minatori con appena 220 ragazzi tesserati ma, come l'Ajax, capace di “svezzare” e di esportare a peso d'oro Christian Benteke, Thibaut Courtois,e lo stesso De Bruyne. Ma è tutto il sistema calcio belga che viene cancellato e ricostruito dopo il disastro a Francia '98 e un Europeo co-ospitato con l'Olanda senza troppi acuti.
G-A-G – Secondo di Guy Thys a Messico 1986, diventa direttore tecnico della federazione belga nel 2002, dopo un Europeo co-ospitato con l'Olanda senza troppi acuti. Sablon passa due anni a studiare le competizioni giovanili e le nazionali di Francia e Olanda. Commissiona a un gruppo di ricercatori dell'università di Leuven di analizzare 1600 ore di filmati di partite di ragazzi per capire come toccano la palla. Organizza incontri con gruppi di allenatori, a tutti i livelli, per discutere formazioni e metodi di allenamento. Il risultato, nel 2004, è il master-plan G-A-G (Global-Analytique-Global in francese, or Globaal-Analytisch-Globaal in olandese). È un processo ideale di dialettica hegeliana: fondere la globalità della tecnica olandese con l'approccio tattico, analitico, francese, e generare così una nuova utopia globale, portare in Belgio un calcio spettacolare, offensivo, sintesi differente dalla somma delle parti.
Nuovo standard – G-A-G significa srandardizzazione. Significa che tutti i bambini, e le bambine, giocano col 4-3-3, ecco perché i Diavoli Rossi sono tornati dopo decenni a produrre ali e attaccanti esterni di livello assoluti, e non entrano sul campo a 11 prima dei 12 anni. Certo, non è facile, ci vogliono cinque o sei anni, le squadre giovanili che iniziano a cambiare filosofia perdono di più. “Ma non è un problema” commenta Sablon, “l'identità e lo sviluppo dei giocatori è più importante”. Bob Browaeys, suo successore e attuale responabile delle nazionali giovanili, prosegue la visione introduce un sistema di identificazione dei talenti migliori che vengono rapidamente avviati nel programma di allenamento nazionale: da qui sono partiti Hazard, Fellaini, De Bruyne.
Calcio è gioia – “In Belgio, i giocatori ne avevano abbastanza delle critiche” ha detto al Sunday Express Sport Georges Leekens, che nel suo periodo da ct dei Diavoli Rossi fra il 2010 e il 2012 ha fatto debuttare in nazionale un bel pezzo della generazione d'oro. “Avevamo bisogno di un cambio di mentalità. I calciatori dovevano tornare a credere in loro stessi e a divertirsi. Anche nello sviluppo dei giovani, abbiamo lavorato di più sulle qualità che abbiamo, sugli aspetti positivi. E abbiamo portato tanti giocatori molto giovani a debuttare in prima squadra”.
Una squadra, una nazione – Ora il Belgio è di nuovo una forza in Europa, e il terzo posto al Mondiale under 17 in Cile lo dimostra. Il circolo virtuoso di investimenti sui giovani sta portando risultati. E sta creando una nazionale che potrebbe finalmente unire una nazione divisa. “Una squadra, una nazione, tutta in rosso” recita una campagna televisiva per i Red Devils in avvicinamento a Euro 2016. Una responsabilità in più per la generazione d'oro dalle spalle larghe.