Dall’Atletico all’Atletico: in due mesi Di Francesco ha cambiato la Roma
Dall'Atletico all'Atletico. Son bastati poco più di due mesi perché Di Francesco, che il padre chiamò Eusebio in onore della Perla Nera, cambiasse la Roma, a cui basterebbe un punto al Wanda Metropolitano per centrare gli ottavi. Perla bianca, verrebbe da dire, tesoro nascosto alla fine di un arcobaleno inatteso. Eppure, a raccontarla oggi con la semplicità della retro-visione, quella che rimane la peggior partita finora della sua Roma racconta un pezzo non secondario della storia. Fu la partita di Alisson, portiere scartato da Spalletti e da lui trasformato in pilastro della rinascita.
Diverso da Spalletti
Un cambio di passo e di stile. Spalletti ha diviso e imperato, amato e odiato. È uscito da Trigoria per l'ultima volta col megafono e il grido “Forza Roma”. DiFra, come lo chiamano i tifosi che lo aspettano ai cancelli del centro Bernardini, ha unito, senza uscite eclatanti, ma non per questo meno deciso o meno brusco quando c'è da indicare la strada. Vuole una squadra dal pensiero veloce e dalle idee chiare, ma guai a sentirsi “bravini”.
Il Di Francesco-pensiero
Pressing alto, equilibrio nel recupero del pallone e nelle transizioni, verticalizzazioni rapide, uscita bassa sulle fasce. I comandamenti del suo calcio, del suo 4-3-3 si vedono chiari nel pressing ordinato, nell'unione che fa la forza con e senza palla. Non si diventa per caso la seconda squadra per tiri a partita, 16.7 dietro solo al Napoli, e quarta per dribbling di media. Un calcio collettivo e propositivo, che coinvolge tutti. "Il lavoro più importante l’ho fatto nella testa dei calciatori, e devo ammettere che tutti stanno sposando le mie idee: stiamo creando qualcosa – ha detto -. La squadra è cresciuta anche nella mentalità, deve essere consapevole di dover affrontare i match andando sempre a prendere gli avversari".
Una macchina quasi perfetta
Ha creato una macchina quasi perfetta, ha alternato 22 giocatori, compreso Tumminello poi prestato al Crotone. In campionato, ha schierato la stessa formazione solo due volte, contro l'Udinese e nel derby. Ha rivalutato Gerson, già provato esterno alto a destra da Spalletti a Torino contro la Juventus: il primo tempo andò benino, il brasiliano però sparì dai radar. A Firenze, quei radar l'hanno riscoperto protagonista, dopo i primi gol in giallorosso. "Ma i complimenti oggi li voglio fare anche a Edin Dzeko: è andato a recuperare un pallone in difesa al 90esimo, questo è l’atteggiamento che voglio dalla mia squadra", diceva Di Francesco dopo il 4-2 del Franchi.
Dzeko e il Ninja per volare
Quarto attaccante che tira di più in Europa, 4.92 conclusioni di media dopo Cristiano Ronaldo, Messi e Kane, il bosniaco è l'unico giocatore di movimento che sia stato utilizzato già per più di 1000 minuti in questa stagione. I paragoni con Batistuta, artefice in un altro tridente dell'ultimo scudetto giallorosso, vanno per la maggiore. Ma non per Di Francesco. "Sono diversi: Bati era più dentro l’area, di testa fortissimo e da 30 metri ti spaccava la porta, Edin ha più tecnica e gioca più per la squadra – ha detto -. Adesso Dzeko ha unito le due cose, aggredisce come voglio io, ha delle qualità da giocatore forte. Con le dovute proporzioni mi ricorda van Basten".
La Roma non è Dzeko-dipendente
Prezioso non solo quando segna, Dzeko, che infatti non vede la porta in campionato dal primo ottobre contro il Milan. I tagli fuori linea, l'apertura degli spazi, i movimenti a venire incontro si combinano con le due altre grandi variazioni rispetto all'era spallettiana. Le diverse istruzioni a Perotti, molto più al centro del gioco e del campo pur partendo largo a sinistra, e l'arretramento, in fondo più teorico che sostanziale, di Nainggolan a mezzala.
Nainggolan, la mezzala del futuro
Quanto sia teorico lo si è visto bene nel derby, o nel secondo tempo contro il Napoli. Il Ninja, ai limiti del non umano, parola di Perotti, per la capacità di recupero dall'infortunio prima del derby, ha depotenziato l'arma migliore della Lazio di Inzaghi, le possibilità di combinazione, di dialogo stretto fra Luis Alberto e Milinkovic Savic. Non solo va a prender palla più dietro in quella zona, ma si inserisce sempre, più alto, nello spazio libero alle spalle del serbo, dove l'avversario è più vulnerabile. Lì si crea il triangolo con El Shaarawy e Florenzi che permette alla Roma di costruire un vantaggio competitivo trasformato poi in vantaggio reale, tangibile, nel primo quarto d'ora del secondo tempo.
Tocca solo 39 palloni a partita, in una Roma che verticalizza e gioca a pochi tocchi, è secondo per passaggi chiave (2 a partita) ma anche terzo per contrasti in media a partita (1.8). In questo, funziona l'intesa con Strootman, fondamentale in una squadra che attacca con un meccanismo consolidato, basato sugli inserimenti della mezzala vicina al pallone nel corridoio interno e dell'esterno alto sul lato opposto che favorisce il ribaltamento sul lato debole.
La miglior difesa della A
Raccontato, e auto tratteggiato, come zemaniano, Di Francesco conserva la sua principale perla, proprio come un trucco non ancora scoperto, lì dove meno ci si sarebbe aspettati di trovarla. La differenza, infatti, la fa quando la palla ce l'hanno gli altri. Se la Roma è la miglior difesa del campionato, non è certo merito solo delle parate di Alisson, comunque essenziali per una squara che concede oltre quattro tiri in più del Napoli e tre più della Juventus. È tutta la fase difensiva che funziona. È una squadra abituata a difendere in avanti, a chiudere le linee di passaggio, sesta per intercetti e solo quattordicesima per contrasti di media a partita.
Cambiano gli uomini, ma non la sostanza. Sta fuori Manolas, e Di Francesco riscopre Juan Jesus al fianco di Fazio. Non ha praticamente potuto utilizzare Schick e Karsdorp, arrivati come sostituti di due pilastri della vecchia gestione, Salah e Rudiger. È la Roma delle rivincite, su tutte quella di Kolarov, uno dei migliori acquisti di tutta la serie A. L'interprete che sintetizza la sua partitura.
Si rivede un po' in Pellegrini, che però ha più tecnica e un po' meno corsa. Ammira Sarri, Guardiola e tutti quelli che trasmettono il proprio pensiero ma non si specchiano negli avversari. La sua Roma è così, sicura della sua identità. Unita nella molteplicità.