Cinque cose che ci sono (e non ci sono) piaciute dell’Italia. E il ct è un falso problema
Come color che son sospesi. L'Italia in campo e l'Italia al voto si rispecchiano. La prima nazionale di Gigi Di Biagio, ct malgré lui traghettatore, è la traduzione pedatoria della nazione emersa alle elezioni. Un gran bisogno di nuovo, anche se nuovo non fosse davvero, qualche presenza che sa d'antico e riconoscenza passata, un presente in cui galleggiare senza identità. E il futuro che passa per decisioni difficili da anticipare, possibili da prevedere.
Cosa piace
Chiesa e Cutrone, prima volta incoraggiante
La prima amichevole del corso nuovo, se così si può dire, dietro la scelta dei 23 rivelava le due domande reali a cui Di Biagio cercava risposte da consegnare in eredità a chi verrà: Chiesa può diventare un pilastro della prossima nazionale? E Cutrone? Eccoli, i nomi più attesi, ecco la coppia di novità che non erano lì per ridisegnare una seconda chance. Le risposte sono incoraggianti, per quanto l'Argentina si sia presentata senza le stelle e un po' "piaciona". Vanno rivisti, vanno aiutati, vanno promossi, vanno stimolati. Vanno inseriti, come ha fatto il ct con la rivelazione del Milan, anche prima di chi ha pedigree più pesanti da poter far valere, vedi Belotti. Perché il cambio di direzione passa anche da qui.
Intenzioni giuste
Al momento, dunque, restiamo alle buone intenzioni. Quelle di Jorginho e Verratti, che per quanto possibile tiene su il centrocampo azzurro con una personalità che ha difettato al pescarese nella confusione tattica che ha intrappolato gli azzurri nell'ultimo periodo della gestione Ventura, fino alla debacle con la Svezia. Giusto dare una seconda occasione, e testare alcuni dei giocatori emersi già nell'Under 21 di Di Biagio e fatti esordire nel ciclo precedente, inserendoli nel proprio ruolo dentro una squadra con meno tensioni e diverse ambizioni. Non si può non partire da qui. Anche perché sono loro stasera i migliori che abbiamo. E al di là della fallimentare gestione di Ventura, della sua testardaggine nell'aver scelto un modulo che non si adatta agli uomini e sperato di interpretarlo con uomini poco disposti ad adattarsi per lui, un dato è emerso chiaramente. Non sono i nomi che fanno o avrebbero fatto la differenza. La questione non è, e non era, far giocare Insigne.
La ricostruzione non può più aspettare
Di questa squadra piace lo spirito, ma siamo al minimo sindacale. Ma in prospettiva è chiaro che questa nazionale dimostra in maniera lampante che così non si va da nessuna parte. Anche sotto questa veste di rinnovamento solo parziale, è e chiaro che questa nazionale è il manifesto di quel che non abbiamo, di quello che ci manca, di dove rischiamo di andare senza un cambio di rotta. E' l'epifania di un'urgenza per troppo tempo non avvertita, o non abbastanza forte da indurre a un cambio di politica. Il calcio italiano ha bisogno di risultati, e questa chiaramente non è la strada per ottenerli. La necessità di una riorganizzazione generale si palesa con l'urgenza di una non procrastinabile rivoluzione, attraverso magari la riorganizzazione del Club Italia, da rendere finalmente collante proficuo con le squadre.
Perché questo è positivo? Perché nelle occasioni in cui la nazionale, e il nostro calcio, hanno toccato il fondo, poi la capacità di reazione si è fatta sentire. Solo che adesso servirebbe anche un cambio di passo complessivo, a livello di dirigenza e di lega, nel quadro di uno scenario più complesso, che coinvolge il peso dell'Italia nell'Uefa. Uno scenario dal quale non possono tirarsi fuori i club, da cui non si può escludere l'importanza di una serie A più ricca, più competitiva, più appetibile e con stadi all'altezza.
Cosa non piace
Il momento del calcio italiano
Questa squadra è lo specchio di un momento, di un movimento, di un calcio senza padrone dal vertice al campo. E' il risultato di una mancanza di decisioni che comincia da lontano, della tendenza dei club a vedere la nazionale come un peso e non come un valore, dello scollamento tra squadre e federazione, del cronico rinviare le spese per i settori giovanili. L'esempio tedesco, che ha imposto ad ogni squadra professionistica investimenti nelle strutture per i giovani senza le quali non possono iscriversi ai campionati, viene da tempo enunciato e mai davvero applicato. Questa Italia è un miscuglio di vecchio e di nuovo, misura di un calcio in cui ancora manca una riflessione sul numero di squadre professionistiche, sul peso delle leghe all'interno della federazione. Un calcio che naviga a vista fra rendite di posizione, giardini piccoli e grandi da difendere, sguardi limitati mentre cambia l'orizzonte. E intanto continuiamo a navigare a vista.
L'incertezza sul ct
L'attenzione, come per lo spareggio con la Svezia, si è però già concentrato sui nomi. I nomi di chi c'è e soprattutto di chi non c'è, vedi Balotelli. Anche la sua sembra più un'assenza differita. E' come lasciare quella che potrebbe essere una chiave di volta o una patata bollente a chi verrà dopo. Perché anche le ultime parole del commissario Fabbricini lasciano poco spazio ai dubbi o ai fraintendimenti. "Dobbiamo cercare il meglio, e se il meglio emergerà da queste partite saremo contenti. Se dovremo fare altri pensieri, invece, li faremo ma con grande serenità e vorrei che alla fine ci fosse una forma di soddisfazione e di senso d’appartenenza alla squadra che sia generale".
Si è dato come orizzonte l'amichevole contro la Francia, che sarà proprio a Nizza, dove SuperMario sta dimostrando con i fatti e con i gol di meritarsi una seconda chance. E' improbabile che Fabbricini, a maggior ragione visto il suo ruolo a tempo, dopo la scommessa Ventura decida di lasciare in eredità al prossimo presidente un commissario tecnico della nazionale dalla carriera ancora giovane.
Più facile leggere dietro le sue parole, e dietro le dichiarazioni di Abete di qualche giorno fa, l'intenzione di una scelta che tolga responsabilità al vertice attuale e futuro. Perché optare per un ritorno di Conte, o per Mancini, o per Ancelotti, per restare ai candidati più "papabili" al momento, vorrebbe dire scegliere uno dei profili migliori attualmente disponibili. Una decisione difficilmente contestabile, indipendentemente da quello che sarà.
Anche per questo non si sono viste le posizioni radicali di Bernardini, quando venne chiamato al capezzale della nazionale dopo il fallimento del Mondiale del 1974 per mandare, di fatto, in pensione, Mazzola e Rivera. I risultati del rinnovamento, con tanto di spinte verso il calcio olandese, non arrivarono del tutto e la sua fama di ribelle non fu certo una protezione. Ma allevò Bearzot e Vicini, e comunque era arrivato per restare, restò per tre anni. Di Biagio potrebbe rimanere per tre partite, e di questo non si può non tener conto.