Brasile-Germania: calcio e identità dal Maracanazo al Miracolo di Berna
Il Brasile, scrive Alex Bellos in Futebol, misura la sua storia recente in Coppe del Mondo perché solo in occasione dei Mondiali si è sentito pienamente nazione. Per questo la ferita del Maracanazo non è stata ancora rimarginata. Perché è una sconfitta che segna l'inizio dell'era moderna del calcio e di un popolo giovane che, senza tragedie nazionali alle spalle, vedeva in quel Mondiale e in quello stadio il suo posto nel mondo. Per questo le conseguenze di un secondo simile disastro sono difficili da immaginare. La Germania, a sessant'anni dal miracolo di Berna, è di fronte all'appuntamento col destino per una generazione che arriva da due terzi posti di fila. L'ultima finale la Mannschaft l'ha giocata, e persa, proprio contro il Brasile, sempre contro Scolari, con Kahn votato miglior portiere del Mondiale prima di regalare la Coppa a Ronaldo. La vendetta è servita con una vittoria dirompente (7-1), sconfitta traumatica per i verde-oro.
Orgoglio e pregiudizio – Anche Barbosa era stato votato miglior portiere del Mondiale 1950. Ma avrebbe barattato volentieri quel riconoscimento con un pareggio contro l'Uruguay. La festa era già pronta, le prime pagine dei giornali già stampate. Sugli orologi d'oro che i brasiliani ricevono prima della finale c'è scritto: “Ai campioni del mondo”. Ma al gol di Ghiggia al Maracanà, incarnazione delle ambizioni dell'intera nazione, un'opera monumentale che allora conteneva più di 200 mila persone, cadde il silenzio, “il più straordinario silenzio della storia del calcio” scrive Eduardo Galeano. “Tre persone sole” ha detto Ghiggia con una frase ormai celebre, “hanno fatto tacere tutto il Maracanà con un solo gesto: Frank Sinatra, Giovanni Paolo II e io”. Nessun altro gol è riuscito a trascendere tanto il dato sportivo e diventare un evento così centrale nella storia di una nazione. È un gol, quello che dà all'Uruguay il 2-1 e il titolo, che sorprende anche Jules Rimet, il presidente della FIFA, che non ha programmato il discorso per un'eventuale successo della Celeste. “Mi trovai solo, con la coppa tra le braccia, senza sapere cosa fare. Alla fine trovai il capitano uruguagio Obdulio Varela e gliela consegnai quasi di nascosto. Gli strinsi la mano senza dirgli una parola”. A pagare di più per la sconfitta sono i tre giocatori di colore, Juvenal, Bigode e soprattutto il portiere Barbosa. Lui giocherà solo un'altra partita in nazionale, ma pagherà per l'errore sul gol per tutta la vita. Vent'anni dopo, in un supermercato, una donna lo vede e lo indica: “Guardate, ecco l'uomo che ha fatto piangere tutto il Brasile”. Nel 1993 vorrebbe salutare i giocatori che si preparano per il Mondiale americano, ma non lo fanno nemmeno entrare nello stadio per paura che porti sfortuna. “In Brasile la pena massima per l'omicidio è di trent'anni” ha detto, “io è tutta la vita che pago per un crimine che non ho commesso”. Per il suo biografo, Roberto Muylaert, “la pellicola in bianco e nero del gol di Ghiggia è l'equivalente brasiliano del video di Zapruder a Dallas”. Hanno “lo stesso dramma, la stessa precisione di una traiettoria inevitabile”. Hanno in comune anche le nuvolette, il fumo del fucile da una parte, la polvere di gesso che si alza dalla scarpa destra di Ghiggia dall'altro.
Maglia patriottica – Il giorno di quella fatidica partita, fatidica è un aggettivo che esiste identico all'italiano e in Brasile è registrato per i diritti d'autore in relazione al Maracanazo, uno studente brasiliano 15enne di un paesino di confine, Aldyr Garcia Schlee, è al cinema in territorio uruguaiano quando il film viene interrotto per dare la notizia della vittoria dell'Uruguay. Aldyr tifa per l'Uruguay ma partecipa al concorso indetto dal Correio de Manha per disegnare la nuova maglia del Brasile, perché quella tutta bianca soffre di “un vuoto simbolico, psicologico e morale”. Aldyr fa l'illustratore nel giornalino locale a Pelotas, nomen omen si direbbe, e obbedisce al dettato del giornale: disegna una divisa armonica che contiene tutti i colori della bandiera del Brasile. È lui l'autore della maglia verdeoro che è oggi il simbolo del bel calcio più conosciuto al mondo. Quattro anni dopo, il Brasile porterà le nuove maglie in Svizzera ma, scherzo del destino, a vincere stavolta sarà proprio una nazionale con la maglia bianca.
Il miracolo di Berna – Quel giorno, il 4 luglio 1954, rappresenta per lo storico Joachim Fest “la vera nascita della nazione”. È il giorno del primo trionfo mondiale della Germania. È il giorno del Miracolo di Berna. Sono due i simboli di quel trionfo contro l'Ungheria, scuola di riferimento del calcio europeo all'ultima grande partita della sua storia. Uno è Fritz Walter, icona del Kaiserslautern, esempio di rinascita e di riscatto per tutta la Germania del secondo Dopoguerra. Pupillo di Sepp Herberger, il tecnico che cercò di dare alla Mannschaft degli anni Quaranta e Cinquanta un gioco più spettacolare e vicino a quello della Scuola Danubiana, Walter ha debuttato in nazionale nel 1940 con una tripletta nel 9-3 alla Romania. Tornerà in Romania un paio di anni dopo, da soldato. Nel maggio del 1942 tornerà a giocare in nazionale, contro l’Ungheria: i Magici Magiari chiudono il primo tempo in vantaggio 3-1. Herberger in spogliatoio carica i suoi, l’umiliazione in terra ungherese non sarebbe stata ben accolta dai nazisti in patria. Il giovane Walter guida la rimonta: i tedeschi vincono 5-3. Tre anni dopo, il ricordo di quella partita gli salva la vita. Il 30 aprile 1945, il giorno dopo che l’Amburgo ha vinto l’ultima partita ufficiale giocata in Germania nel periodo di guerra, Hitler si suicida. La Germania capitola e Walter viene fatto prigioniero dai russi. Sta giocando una partita contro le guardie in un campo in Ucraina, dove vengono trattenuti tutti quelli che saranno spediti in Siberia. Una guardia ungherese, che era allo stadio nel ’42, lo riconosce e cancella il suo nome dalla lista dei prigionieri destinati alla Siberia. Dodici anni dopo, il ricordo di quella partita lo trasformerà nel primo capitano tedesco ad alzare la Coppa Rimet. Battuti 8-3 dall’Ungheria nel girone, i teutonici ritrovano i magiari in finale. Dopo 8 minuti, sono sotto 2-0. Diluvia: in Germania, quando piove così, dicono che “è il tempo di Fritz Walter”. Non segna, ma è il maschio alfa di quella nazionale, il faro di una squadra che rimonta, forse con qualche aiutino non proprio lecito all’intervallo. Segna Morlock, pareggia Helmut “Der Boss” Rahn. È un'ala muscolare, che nemmeno era stato incluso inizialmente nella lista dei convocati, tanto da partire per una tournée a Montevideo con il suo club, il Rot Weiss Essen. Ha giocato talmente bene con il Penarol da convincere Herberger a chiamarlo per il Mondiale di Svizzera. È a lui che, all'85', arriva il pallone respinto dal portiere Grocsis sul cross di Schafer. Gli arriva sul sinistro, che non è il suo piede migliore. Il suo tiro che entra tra il portiere e il palo destro diventa un pezzo di cultura popolare tedesca. Heribert Zimmerman, il più popolare dei telecronisti tedeschi, lancia un grido che è ormai leggenda: “Tor! Tor! Tor!” (Gol! Gol! Gol!), poi inserito nella colonna sonora del film di Fassbinder Il matrimonio di Maria Braun.
Miracolo al cinema – Un altro film ha raccontato la prima Coppa del Mondo tedesca, Il Miracolo di Berna. È la storia del piccolo Matthias che la sera della finale incontra proprio Helmut Rahn in treno. Matthias è figlio di un reduce, ex prigioniero di guerra, con un padre che dopo 12 anni di prigionia fatica a riadattarsi alla vita civile. È una vita dura in cui la sua unica gioia è il calcio. L'inizio dei Mondiali coincide con la ripresa del rapporto col genitore ed i due, il giorno della finale, partono alla volta di Berna per seguire l'incontro ma, a causa di un guasto alla macchina, ritardano l'arrivo e Matthias riesce ad entrare nello stadio solo a pochi minuti dalla fine della partita ma in tempo per vedere il gol della vittoria segnato dal suo idolo. Un gol che cambia la psicologia dell'intera Germania come ha detto Franz Beckenbauer. “Improvvisamente, l’intero popolo tedesco riguadagnò autostima; improvvisante eravamo di nuovo qualcuno”.