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Brasile 2014: Luis Suarez, stella di un Uruguay al Mondiale tra genialità e nostalgia

L’Uruguay ha un presidente rivoluzionario e il più alto tasso di suicidi dell’America Latina. E’ una nazione di creativi, è un popolo con bassa autostima. Un paese di contraddizioni rappresentato da una star speciale, con un temperamento impossibile da controllare: Luis Suarez.
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Saltando dal suo io, recita un proverbio, un uruguaiano si romperebbe a malapena una gamba. Insomma, stretto tra l'Argentina, il Brasile e l'oceano, l'Uruguay è un popolo con scarsa autostima. Un popolo “con la genialità di uno Schiaffino”, un popolo malinconico, triste. Un Paese che ha il tasso di suicidi più alto dell'America Latina ma è stato scelto dall'Economist come Paese del 2013 dall'Economist per la ricetta del presidente povero e rivoluzionario Pepe Mujica che ha legalizzato l'aborto, le unioni omosessuali e la produzione, il possesso, la vendita di marijuana. Una nazione che ha vinto 15 volte la Copa America, più del Brasile, più dell'Uruguay. Un popolo che si specchia nella storia della famiglia Forlàn, con tre generazioni di campioni continentali (il nonno Juan Corazzo, il padre Pablo e Cachavacha hanno alzato la Copa America). “Da noi si dice che un uruguaiano a cui non piace il fútbol non è un vero uruguaiano” scrive Osvaldo Heber Lorenzo, uno dei giornalisti sportivi più noti del Paese. Per cui non deve stupire se oggi questo Paese di contraddizioni che si specchia nel suo simbolo calcistico più brillante, Luis Suarez.

Calcio, un sogno e una rivalsa – “Non mi accontento mai. Odio perdere, non accetto mai la sconfitta”. È con questo spirito che Luis Suarez ha scalato il calcio mondiale dalla povera cittadina portuale di Salto, nel nordest del Paese. Suarez ha iniziato a giocare a quattro anni nella base militare del settimo battaglione dove aveva prestato servizio nonno Atacildo. Con un padre, Rodolfo (poi impiegato in una fabbrica di biscotti) e un fratello, Paolo, calciatori, la passione per il futbol si trasmette per via ereditaria. A sette anni, mamma Sandra porta tutta la famiglia a Montevideo per cercare una vita migliore, e oggi lavora ancora a Solymar, un sobborgo della capitale, che il figlio Luis le ha comprato cinque anni fa. A 11 anni, Suarez viene invitato a un training camp a La Plata, in Argentina, ma deve rifiutare perché non ha nemmeno i soldi per comprarsi le scarpe, figurarsi se può pagarsi il viaggio. A 14, poi, entra nel vivaio della principale squadra uruguayana, il Nacional di Montevideo. Entra in prima squadra a 16 anni, e debutta contro il Junior de Barranquilla in Coppa Libertadores nel maggio 2005. Il talento c'è già tutto, così come quel temperamento che farà dire a Van Basten, che lo allenerà all'Ajax: “È uno difficile da influenzare, da controllare, ma è questo che lo rende speciale”. A 15 anni, dopo un'espulsione Suarez reagisce con una violenta testata che rompe il naso dell'arbitro. È solo l'intervento del fratello Paolo che convince i dirigenti a non cacciarlo dalla squadra. Contro il Defensor segna uno dei gol più belli della sua carriera, salta due avversari in velocità e con un tocco sotto supera il portiere. Non sa che quel giorno tra gli spettatori ci sono gli osservatori del Groningen, che erano interessati a un altro attaccante di un'altra squadra, ma basta loro vedere una sola partita per convincersi che è Suarez l'uomo giusto. E lui, che soffre perché la sua fidanzata, che oggi è sua moglie, è lontana, è partita per Barcellona, accetta ben volentieri di venire in Europa. Segna 10 gol in un anno e il Groningen lo vende all'Ajax per una cifra 10 volte superiore a quella che aveva pagato per acquistarlo. Suarez segna al debutto, con il De Graafschaap, e non si ferma, ne arriveranno più di 100. “Ho imparato moltissimo in Olanda” ha raccontato, “e non credo che avrei potuto farlo altrove. Ero un egoista, e mi hanno insegnato ad essere parte di una squadra. Van Basten mi ha insegnato a giocare da attaccante, ha migliorato le mie qualità al tiro, mi ha spiegato i suoi movimenti, la sua tecnica. Ma soprattutto mi hanno insegnato ad essere più calmo in campo, a controllare di più il mio temperamento”.

There's a hole in my soul – La perfezione, però, non è di questo mondo. E l'istinto a volte ha ancora la meglio sulla ragione. Ai Mondiali del Sudafrica, si autoproclama la nuova mano de Dios: con la mano non segna, ma “para” un colpo di testa destinato in rete a pochi secondi dalla fine del secondo tempo supplementare nel quarto con il Ghana. Asamoah sbaglia il penalty e l'Uruguay vince ai rigori. Le critiche sono feroci. Il ct Tabarez lo difende. “Ha fatto un gesto istintivo ed è stato espulso. Vogliamo dare a lui anche la colpa dell'errore di Asamoah?”. A Liverpool la Kop lo ama perché sceglie di giocare col numero 7, e subito ammette: “Non sono degno di essere paragonato a Kenny Dalglish”, che con quella maglia ha fatto la storia. Lo ama per i suoi gol e i suoi assist, che hanno illuminato la stagione di Sterling e fatto sognare lo scudetto. Ma lo hanno odiato quando ha messo il braccio senza ragione per intercettare un calcio d'angolo e regalato la vittoria al Chelsea nel 2011. A fine partita, sul braccio di Branislav Ivanovic c'erano i segni dei denti di Suarez. Nel giorno in cui Anfield ricordava la morte di Anne Williams, una mamma che aveva perso il figlio a Hillsborough e si era battuta per 24 anni per la verità, e delle vittime dell'attentato alla maratona di Boston, Suarez ha macchiato la reputazione del club. Da due giorni era tra i sei candidati al premio di Giocatore dell'Anno in Premier League. Non è la prima volta che Suarez cede a questo tipo di impulsi. Nel 2010 è stato squalificato per sette partite all'Ajax dopo aver morso Otman Bakkal, del PSV: un gesto che gli è valso il soprannome di “Cannibale dell'Ajax”. Al Liverpool subirà una squalifica ancora più lunga, otto settimane, per gli insulti considerati razzisti a Evra.

La macchia umana – L'ha chiamato “negro” sette volte in due minuti: per questo la Football Association gli infligge l'esemplare squalifica. A poco vale la difesa di nonna Lila: “Da piccolo, lo chiamavo el mi negrito, in Uruguay negrito è un epiteto affettuoso, non razzista". “Il nonno Alberto era mulatto” dice Jorge Diaz, il cugino di Suarez, “pensare che suo nipote Luis sia razzista è ridicolo”. Eppure in Inghilterra l'hanno pensato. un po' come nella “Macchia Umana”, il romanzo di Philip Roth in cui un professore viene espulso dall'università per aver etichettato due studenti di colore assenteisti come “spooks”, che vuol dire fantasmi ma è anche un insulto per i neri.

La prima scoperta dell'America – In Uruguay, sono proprio gli inglesi, come in Argentina, a portare il calcio. Il successo nel primo campionato sudamericano, nel 1923, è una delle prime manifestazioni della “garra charrua”, un carattere nazionale fatto di spirito combattivo e coraggio, “un istinto di sopravvivenza che in campo cementa una squadra nella sua definizione collettiva”, come l’ha definito lo scrittore Astolfo Cagnacci. Un modo di essere che non è solo dei giocatori della nazionale. Scrive Waldemar Victorino, che ha indossato la maglia della Celeste negli anni ‘70, nella Storia del calcio: “La garra charrua è la nostra idiosincrasia. Ce l’abbiamo tutti, non solo i calciatori. Vogliamo spingerci più in là, arrivare primi. Abbiamo sempre amato le sfide difficili e per noi il calcio era una sfida difficile”. È la nazionale di Pedro Cea e Perucho Petrone, che inventano un modo nuovo di attaccare, fatto di scambi stretti e di movimenti continui, che tutti cominciano a chiamare “la parete”. È una nazionale di operai, di calciatori bohemien che scendevano in campo per il piacere del gioco e ricevevano poco dal calcio in cambio della loro passione, se non la felicità di giocare e di vincere. Pedro Arispe era operaio nel settore della macellazione della carne, Jose Nasazzi tagliava lastre di marmo. “Perucho” Petrone vendeva verdura, Pedro Cea distribuiva ghiaccio, Jose Leandro Andrade era un lustrascarpe che suonava al carnevale. È la nazione che domina l'Olimpiade del 1924. Gianni Brera commenta: “l’Argentina gioca a calcio con molta eleganza e immaginazione, ma la superiorità tecnica non può compensare l’abbandono della tattica. Tra le due nazionali rioplatensi, l’Argentina sono le cicale, l’uruguay le formiche”. Formiche che, per dirla con l’orgoglioso dottor Attilio Narancio, non sono più “un punticino piccolo sulla mappa del mondo”. Formiche che ottengono l'organizzazione dei primio mondiali, nel 1930, pochi mesi dopo la morte del caudillo José Batlle y Ordóñez (ottobre 1929), che aveva introdotto il socialismo di stato nel 1911 e trasformato l’Uruguay nella Svizzera del Sudamerica, su cui pesavano le conseguenze della crisi di Wall Street. La prima finale è con l'Argentina. L'arbitro Langenus fa giocare il primo tempo con il pallone voluto dagli argentini, e il secondo con il pallone degli uruguagi. Risultato: 2-1 albiceleste alla fine del primo tempo, 4-2 Uruguay al 90′.

Le parole di Obdulio – Vent'anni dopo, sono bastate sei parole a Obdulio Varela per creare il Maracanazo. Prima della sfida del Maracanà per il titolo mondiale 1950, il presidente uruguayano prova a consolare la squadra: “Sarà comunque una vittoria se prenderemo meno di quattro gol”. I quotidiani brasiliani escono con le foto della squadra e titoli come “ammirate i campioni” prima del fischio d'inizio. Ai verdeoro basta anche il pareggio e sugli spalti ci sono 200 mila spettatori pronti a festeggiare. Ma quelli non contano, dice Varela ai suoi, “los de afuera son de palo”. Non guardate verso di loro, il mondiale si decide in basso, sul campo. Il resto è storia. Dopo quella vittoria, spiega oggi il presidente Mujica, l'Uruguay si è impoverito, si è lasciato andare: “Cinquant'anni di nostalgia”.

Questioni di autostima – Un Paese nostalgico e con poca autostima è ben rappresentato da una nazione che ha una coppia d'attacco quasi senza uguali tra le pretendenti al mondiale, Suarez-Cavani, che però rischia la figuraccia, che potrebbe non passare nemmeno il primo turno. Il girone con Italia e Inghilterra è il più duro di Brasile 2014. tabarez non ha scelto la strada della rivoluzione. Rispetto al Sudafrica, confermati in 16 su 23. C’è ancora Diego Forlan, idolo del popolo "charrùa" nonostante le sue 35 primavere. È una nazionale di veterani, (metà squadra ha oltre 30 anni), guidata da Diego Lugano, che eguaglierà i miti Varela e Troche disputando il secondo mondiale consecutivo da capitano.

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