Brasile 2014: la Spagna si affida a Iniesta per il bis Mondiale
“Se giochi bene e non vinci, smetti di giocare bene e viceversa”. Così parlava Pep Guardiola. Quel “viceversa” si può leggere come “se giochi male e vinci, smetti di giocar male”. In questo corollario c'è la ragione per cui in Spagna esiste una parola che non ha equivalenti in nessun altra lingua del mondo: resultadismo. Come se il calcio potesse tradursi in un esercizio espressionista di stile, di art pour l'art. Vale a dire, in Spagna giocare per il risultato, cercare la vittoria, è un male. È la “colpa” per cui non sono rusciti a farsi apprezzare allenatori vincenti come Capello o come Mourinho. “Solo chi i risultati non li fa, ti accusa di essere un resultadista” diceva lo Special One ai tempi del Real. E un tifoso ha twittato, con l'efficacia della sintesi imposta dai 140 caratteri: giocare per la vittoria è naturale per tutte le squadre tranne due, il Barcellona e la Spagna. La storia è cambiata con Guardiola, che ha posto il suo bene e il suo male al di sopra della squadra come una legge ed è riuscito a realizzare il suo ideale, a unire l'etica e l'estetica, a raggiungere l'utile attraverso il bello. Il blocco-Barcellona trasportato nella Roja ha dato vita alla nazionale che ha giocato il miglior calcio del nuovo millennio e dominato come mai la Spagna era riuscita a fare. Merito soprattutto di Iniesta, un visionario che vede uno spazio dove spazio non c'è, che anticipa mosse e contromosse, che ha messo il meritato sigillo sul primo titolo mondiale della Roja. Un gol che l'ha anche guarito dalla depressione.
Iniesta, il Cavaliere Pallido – Per il ct della nazionale, Vicente del Bosque, Iniesta è “tecnicamente perfetto e gioca anche con una gran disinvoltura, quasi senza sforzo. È come quando Federer gioca a tennis, a malapena suda”. Iniesta, insieme a Xavi, è il vero eroe del trionfo mondiale in Sudafrica. Una rivincita delle icone dello spagnolo eterno, piccolo, bruno, scuro, serio, nato povero, contrapposto a quelli come Fernando Torres, che lo scrittore Javier Cercas considera il simbolo dello spagnolo nuovo. Torres aveva scandito l'europeo del 2008, un'altra epoca, un'altra stagione per la nazionale e per la Spagna. In mezzo la crisi economica e politica, la fine del boom e delle illusioni. Cambiano le stagioni, cambiano i protagonisti. In Sudafrica sono le anti-stelle, quelle che illuminano gli altri, i calciatori collettivi, come Gramsci sognava gli intellettuali, a brillare. Protagonisti come David Villa, figlio e nipote di minatori asturiani ribelli sia a Franco sia alla nomenklatura socialista. Anti-star come il catalano Xavi e Iniesta, il moderno Don Chisciotte, che arriva pure lui dalla Mancha, regione esclusa dal miracolo turistico iberico: almeno in campo, le divisioni e i separatismi sono lontani. È lontana Barcellona da Fuentealbilla, paesino di duemila abitanti, in cui il piccolo Andrès gioca a futsal ma sogna il calcio a 11. I genitori, papà muratore, mamma casalinga, che non hanno nemmeno guardato alla tv la finale mondiale, accettano di iscriverlo a 8 anni alla scuola calcio dell'Albacete, il capoluogo della Mancha. Iniesta non ha dimenticato le sue origini: ha versato alla sua prima squadra 420 mila euro nel 2011 e altri 240 mila nel 2013 per salvare la società dal fallimento. A 12 anni arriva alla Masia, la cantera del Barcellona, con l'idea di imitare il suo idolo, Michael Laudrup. È piccolo, timido e pallido perché una rara malattia della pelle gli impedisce di scurire la carnagione: c’è un programma televisivo in Spagna dove lo prendono bonariamente in giro per questo. Hanno inventato per lui il personaggio di «Gasiluz», il neon. Piange ogni notte per le prime due settimane, ma resiste. Rimane in ritiro da solo quando gli altri bambini, praticamente tutti catalani, tornano a casa per il weekend. Amici come Xavi, che ha quattro anni più di lui, cui Guardiola un giorno dice: «Tu prenderai presto il mio posto, ma questo ci manda a casa tutti e due».
L'uomo dell'ultimo minuto – Per il suo gol al Chelsea, nella semifinale di Champions League dello Stamford Bridge, Guardiola corse dalla panchina come mai aveva fatto prima, come non farà nemmeno dopo la conquista del titolo nell'anno del triplete. Al Mondiale di quattro anni fa si è sbloccato contro il Paraguay: è stata una sua magia ad avviare l'azione del gol di Villa contro l'avversario che più di tutti ha messo in difficoltà la Spagna. In finale, si è praticamente nascosto fino all'assist di Fabregas e a un gol che ha unito tutta la nazione che lo ha accolto lungo la Gran Via al grido di “Iniesta presidente”. Ma il Cavaliere Pallido, che ha celebrato il gol mondiale con una dedica per Dani Jarque, il capitano dell'Espanyol, l'altra faccia del calcio catalano, morto un anno prima a Coverciano, ha altre idee per il post-carriera. Ha piantato una vigna nella Mancha dove produce vino di qualità: «Mi piace l'idea delle persone attorno a un tavolo: mangiare, bere, ridere».
Tutto cominciò con Zamora – Chi oggi attacca i “difensivisti” forse non ricorda che la prima grande stella del calcio spagnolo fu un portiere, e che portiere: Ricardo Zamora, il più forte numero 1 del mondo negli anni Trenta. Lo chiamavano il Divino, dicevano che esistevano solo due portieri, San Pietro in cielo e Zamora sulla terra. Debuttò nel 1915, a Madrid con la maglia dell'Espanyol, e un giornalista scrisse: “In campo c’era un ragazzino che si chiama Zamora. Ha giocato come si potrebbe bere un bicchier d’acqua”. L'Italia però non gli portò bene. il primo giocatore a segnargli una doppietta a livello internazionale fu il barese Raffaele Costantino nel 1930. Quattro anni dopo, nel quarto di finale mondiale di Firenze, l'arbitro Baert consente a Schiavio e Baloncieri di colpirlo più volte senza essere puniti. Finisce 1-1, e Zamora nella ripetizione non gioca. Si parla di una scelta di protesta antifascista, anche se durante la guerra civile fu imprigionato dai repubblicani e ricevette un riconoscimento da Francisco Franco. Zamora ha accreditato la tesi dell'infortunio per i colpi ricevuti, ma la verità se l'è portata nella tomba.
La quaterna del Buitre – Nei sessant'anni tra il quarto posto del 1950 e il trionfo del 2010, le Furie Rosse non vanno mai oltre i quarti di finale al Mondiale. La nazionale del 1982, che giocava bene senza segnare mai, e del 1986, sono il migliore specchio dell'identità nazionale. È la nazionale di Butragueno, che insieme a Hierro, Raul e Basora è il capocannoniere iberico nelle fasi finali dei Mondiali con 5 gol. Quattro li ha segnati in una sola partita, l'ottavo di finale del 1986 contro la Danimarca. Un'impresa così non riusciva da vent'anni, da quando Eusebio completò praticamente da solo la rimonta da 0-3 a 5-3 sulla Corea del Nord. “Mi sentivo strano quel giorno” ha raccontato Butragueno, “non ero un grande bomber ma quel giorno ho avuto anche molta fortuna, mi sono guadagnato anche due rigori. A fine partita ho scambiato la maglia con Michael Laudrup, ce l'ho ancora a casa. In tribuna c'era mio padre con la mia futura moglie. Lui era al settimo cielo, io invece tutto sommato rilassato”. Saranno altre Furie Rosse, il Belgio, a fermare la corsa iberica ai quarti, ai rigori. E saranno sempre i rigori, in una delle partite più contestate di un'edizione con troppe ombre arbitrali, a condannare la Spagna di Camacho contro i padroni di casa della Corea del Sud nel 2002. Dopo le decisioni a senso unico di Byron Moreno al turno precedente, i coreani ringraziano ancora gli arbitri che annullano due gol regolari alla nazionale di Camacho.
Nazionale a tre blocchi – Dopo lo stop nella finale di Confederations Cup, il primo dopo 29 partite senza sconfitte, e dopo la strepitosa cavalcata dei Colchoneros di Diego Simeone, Del Bosque sta strutturando una nazionale a tre blocchi. Insieme alle colonne storiche del Barcellona (Piqué, Puyol, Iniesta, Xavi) e del Real Madrid (Casillas, Xabi Alonso, Sergio Ramos), ha dato via via spazio agli elementi di spicco dell'Atletico Madrid, da Koke a Juanfran a Diego Costa, che ha voltato le spalle alla Seleçao brasiliana e scelto di difendere i colori del Paese d'adozione. “La Spagna mi ha dato tutto” ha commentato per spiegare la sua decisione. Costa, infatti, ha iniziato a giocare nel Barcellona di Lagarto (un segno del destino?), la sua città natale nello stato di Sao Paulo, ed è arrivato in Spagna, all'Atletico, a 18 anni. In tanti hanno accusato i rojiblancos di vincere giocando male quest'anno. Ma Diego Costa, come Simeone, non vuole proprio smettere di vincere. E se volete, chiamateli pure resultadisti…