Auguri France’, er cucchiaio del Colosseo
Un meraviglioso gol mediocre. Un tiro sporco, lento, brutto. Un gol che non avrebbe dovuto essere, perché in fuorigioco. Un gol che non ha fatto vincere. Un gol triste, accompagnato da un’esultanza triste. Eppure, è un gol da festeggiare. Il 300mo di Francesco Totti con la maglia della Roma, regalo un po’ anticipato per il compleanno numero 39 del simbolo di quella parte di capitale gialla come il sole e rossa come il cuore dei tifosi. Farmaco di una squadra che come Roma è quanto mai glocal, insieme generone e caput mundi, un grande paese che guarda il mondo, ma il mondo non le somiglia. E in quanto farmaco è cura e malattia, problema e soluzione. Il più presente e il più prolifico in giallorosso: un amore che splende e che oscura, che dura da 21 anni.
Come tutto è cominciato – Un amore scattato a Brescia, quando Boskov lo chiama dalla panchina per fargli assaggiare gli ultimi minuti di una partita già vinta, e il non ancora Pupone pensa che ce l’abbia con Roberto Muzzi, seduto lì accanto. Un amore che esplode il 4 settembre 1994, all’Olimpico, contro il Foggia di Catuzzi. Sugli spalti ci sono tutti, papà Enzo e mamma Fiorella, ci sono gli zii che non hanno trovato posto e sono andati nel settore ospiti. C’è il fratello Riccardo, con cui ha provato un’esultanza da wrestler. Ma quando sul lancio di Thern, Fonseca la gira di testa spalle alla porta, e lui è lì, dove avrebbe dovuto essere, perché ha seguito l’azione e di sinistro la mette nell’angolo nonostante la scivolata di Padalino, si dimentica tutto. Così, a a 7786 giorni di distanza, il primo e il trecentesimo gol hanno una stessa inconsapevole coreografia. Una corsa a zig zag allora, un gesto più posato adesso, per due gol che non fanno vincere (quel Roma-Foggia finirà 1-1) ma regalano uno di quei sogni che non fanno svegliare.
Il Bimbo de Oro – Una favola iniziata allora con la maglia numero 9, quella che avrebbe dovuto essere di Abel Balbo, sacrificato perché c’erano già in campo tre stranieri (Aldair e, appunto, i due coinvolti nell’azione del primo gol del Pupone). E mai davvero finita. Una favola che si è animata di un nuovo capitolo, di una nuova invenzione, il goalfie, il selfie dopo il quarantesimo gol alla Lazio. Una festa con la Sud, l’abbraccio di un tifoso con i tifosi, per qualcuno l’immagine perfetta della Roma, di quel che è stata e del perché non sarà. Perché scegliere una simile coreografia subito dopo il gol, a partita in corso e non alla fine, e per di più dopo un gol che vale il pareggio provvisorio, espone di certo al rischio.
Che sarebbe successo, si chiedono in tanti, se Mauri avesse segnato invece di prendere il palo? Una domanda logica, razionale per quel che logico e razionale non è. Per quel che il tifo, e il tifo romanista a Roma più che altrove, spinge a fare. Una passione che assorbe e totalizza, difficile a volte da sostenere e da gestire, una passione generosa che esalta chi se ne fa trascinare e non perdona chi la delude. Perché il calcio non ha confini nella città che ha costruito un impero, ma qualche limite sì: si vive per il pallone 365 giorni l’anno, ma l’orizzonte resta l’immediato, resta il qui e ora, l’uovo oggi e non la gallina domani. Soprattutto se c’è la Lazio di mezzo. È una guerra del cuore. E come tutte le guerre del cuore si accontenta di cause leggere.
Promesso alla Lazio – Eppure, proprio alla Lazio stava per finire. Enzo Di Maio, direttore sportivo della Lodigiani, l’aveva promesso nel 1989 ai biancicelesti. La famiglia Lodigiani è allora una potenza economica: attraverso Impregilo controlla quasi tutte le autostrade, partecipa al salvataggio dei templi egizi di Abu Simbel, che sarebbero stati sommersi in seguito alla costruzione della grande diga di Assuan sul Nilo, alla costruzione dello stadio di San Siro. Mamma Fiorella, però, va da Gildo Giannini, il papà del Principe, per chiedergli di portarlo in giallorosso. A una condizione, ricorda: “Dovete farlo giocare. Non è che viene qui a fare la riserva?”. Dino Viola in persona telefona al presidente Malvicini: ai biancocelesti vanno 300 milioni di indennizzo e due giocatori della Primavera della Roma, Gianni Cavezzi e Stefano Placidi.
"Je faccio er cucchiaio" – È proprio ai derby che Totti ha riservato le coreografie, le maglie che hanno fatto la storia, dal “Vi ho purgato ancora” al “Roma, 6 unica” dopo il pallonetto a chiudere il 5-1 aperto dal poker di Montella. Pallonetto, o per meglio dire cucchiaio. E tutto si tiene, il cerchio si chiude. È la ripresa beffarda di un’invenzione antica, infatti, che rimane come un marchio nell’immagine e nella carriera del Pupone. È il rigore a Van der Sar nella semifinale europea del 2000 che ha ridefinito la dimensione del racconto epico, dell’epica applicata al racconto dello sport. È Panenka, il centrocampista cecoslovacco che fece gol a Sepp Maier a Belgrado, nella finale dell’Europeo del ’76 contro la Germania, il riferimento immediato, l’associazione che prima di tutte veniva e viene.
Ma a Totti, che mette lo scudetto del 2001 davanti anche al titolo mondiale del 2006 nella classifica delle gioie sportive, l’idea è venuta durante un altro derby, quello del 1991. "Lo vidi fare a Voeller contro la Lazio. In porta c’era Valerio Fiori. Io ero raccattapalle. Mi è piaciuto e ho cominciato a provarci anch’io". Coraggioso Rudi, il tedesco volante, centravanti e capitano giallorosso quando Ottavio Bianchi, ad inizio anni Novanta, tolse la fascia a Giuseppe Giannini. Proprio quel Principe cui Mazzone chiese di “tenere d’occhio” il giovane Totti, nei primi anni in prima squadra, per evitare che si perdesse. Quel derby, Totti se lo porta in campo.
Il giorno prima della semifinale trasforma così in rigore di allenamento e lo promette a Nesta, compagno di tante partite alla playstation nel ritiro di Geel: “Prima o poi lo faccio in partita”. A centrocampo, nell’elettrizzante serie di calci di rigore, Di Biagio segna il primo penalty. Nesta indica il portiere: “Gigi, hai visto quanto è grosso?». E indicò van der Sar. Ma quando toccò a lui, lo preparò a quella giocata: “Nun te preoccupà, mo je faccio er cucchiaio”. “Ma che sei pazzo?” sbotta Maldini. Di Biagio, però, che era in campo col Foggia quando Totti segnò il suo primo gol in giallorosso, sa già quello che succederà. “Paolo, glielo fa”. Il resto è storia.
Nella storia – Ne farà altri, e non solo dal dischetto. Il lob morbido e letale che beffa Julio Cesar nella San Siro nerazzurra il 26 ottobre del 2005 rimane un numero d’alta classe che Roberto Mancini, allora come oggi tecnico dell’Inter, non ha potuto fare a meno di applaudire. Ha liberato diverse variazioni sul tema, compreso il tocco sotto d’esterno sull’uscita di Hart che l’ha reso il marcatore più anziano nella storia della Champions League, da quando la Coppa dei Campioni ha cambiato denominazione. Un lampo, uno scatto di genio per un campione finito sui biglietti dell’Atac, che ha raccolto le barzellette su se stesso per beneficenza, che è finito su ogni tipo di murales e su Topolino. L’immagine della Roma e di Roma. Una città e una squadra diventate adulte senza essere troppo cresciute. E non è detto che sia un male.