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Arrigo Sacchi, 70 anni di calcio “straordinerio”

Arrigo Sacchi compie 70 anni. Ha costruito il Milan degli Immortali, la squadra di club migliore di sempre. Non ha inventato nulla. Altri dopo di lui hanno sicuramente vinto di più. Ma nessuno ha cambiato il modo di pensare il calcio in Italia come lui.
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"Negli ideali della storia, ne' miti della leggenda, c'è una linea oltre cui comincia il delirio". È cresciuto con il testo di questa lapide davanti al palazzo del municipio, Arrigo Sacchi, il profeta di Fusignano. Nei suoi 70 anni si scrive la storia della visione che più di tutte ha cambiato il calcio in Italia. Non ha inventato nulla, Sacchi, altri dopo di lui hanno sicuramente vinto di più, ma nessuno ha avuto il suo stesso peso sul modo di pensare e interpretare l'arte del pallone. Ossessionato dal lavoro, paranoico nella cura dei dettagli preludio della vittoria, condannato all'insoddisfazione come tutti i perfezionisti, non voleva calciatori, desiderava giocatori. Come Diogene, cercava l'uomo. “Gli uomini non hanno chiavette, bottoni, molle” diceva a Repubblica dopo il primo scudetto al Milan, la squadra degli Immortali votata dalla rivista World Soccer il miglior club nella storia del calcio. “Si arriva al traguardo quando tutti sono umili, uniti e convinti del gioco che fanno. Nessun giocatore, per quanto grande, possa sostituirsi al gioco. È il gioco che fa il giocatore”.

Orchestra – Da ragazzo sognava di diventare direttore d'orchestra, come suo cugino. “Che differenza c'è tra te e Muti” gli ha chiesto un giorno, “in fondo suonate lo stesso spartito”. “Se Muti ha un'orchestra di duecento orchestrali” gli ha risposto, “quello meno importante è quello che batte i piatti: se li batte un attimo prima o un attimo dopo, un po' troppo forte, un po' troppo piano, lui lo sente”. È questo il segreto del successo di Sacchi. Ha portato nel calcio la visione di Arcangelo Corelli, che alla metà del Seicento aveva portato il nome di Fusignano nel mondo, punto di riferimento per tutti i compositori del Settecento. Entrambi maturano una convinzione: la musica e il calcio nascono dalla testa. E in una squadra, così come in un'orchestra, la connessione fra gli elementi deve trasformarsi in sinergia.

Innovatore – Sacchi, scrive Mario Sconcerti, “non è stato un vero tecnico. Sacchi aveva il nerbo e la rapidità degli innovatori. Non ha inventato mai niente. C’era già tutto prima di lui, la zona, le ripartenze, l’aggressione agli spazi”. Ha inventato un nuovo ritmo e un diverso metodo di lavoro. “Portò il nostro calcio nella modernità, ne fece, quasi involontariamente, qualcosa pronto per diventare un fenomeno industriale”. Un calcio che, in questa forma e misura, nessuno aveva ancora pensato. Un prodotto perfetto per un presidente che avrebbe cambiato il modo di essere e di fare squadra fuori dal campo. “Quando Berlusconi mi scelse, correndo un grande rischio, io commentai con la mia famiglia: o è un pazzo o è un genio. Perché rischio? Semplice: era venuto a prendermi a Parma in serie B solo perché vide giocare bene la mia squadra col Milan di Liedholm in coppa Italia”. Firmerà un contratto in bianco, prenderà meno di quanto guadagnava a Parma, ma insieme costruiranno il Milan più “olandese” della storia. E per portare in Italia Rijkaard, evitando le proteste dei tifosi dello Sporting Lisbona, Braida arriverà a nascondersi il contratto firmato nelle mutande.

Culto del perfezionismo  Sacchi non propone un modulo, offre una visione. l suo è un calcio illuminato dalla scienza del calcio totale, dal “movimiento” della Juventus di Heriberto Herrera, in anticipo su mode e tempi. Eppure, alla base della sua idea porta concetti quasi mistici: la motivazione, l'ambizione, il sogno, il culto del perfezionismo, un ambiente sereno, la mancanza di sovrapposizione di ruoli. “Per me il calcio è uno spettacolo sportivo, non una moderna versione dei giochi del Colosseo, e la vittoria è la conseguenza delle idee e del lavoro” ha detto. Per la vittoria servono una società seria, un'idea di gioco diversa che piaccia ai giocatori e tutti devono correre alla stessa maniera. Perché a Sacchi non basta vincere, vuole vincere e divertire. Perché al Milan, quando Van Basten si lamentava, gli rispondeva: non dobbiamo solo vincere, dobbiamo essere i migliori di tutti.

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Le fondamenta del grattacielo – È lo stesso allenatore che al Bellaria di Igea Marina, perdeva praticamente sempre in precampionato. “Se vuole costruire un grattacielo deve fare le fondamenta” spiega in un'intervista a IL del 2012, “e finché fa delle fondamenta va sottoterra e non sopra”. Un po' tecnico, un po' filosofo, ha bisogno di fondamenta profonde per la sua rivoluzione. Non deve inventare un modo di giocare, deve scardinare un modo di pensare. Ribalta i due assiomi che nutrono la cultura calcistica da Torino a Palermo, l'idea breriana che il calcio all'italiana sia l'unico possibile per un popolo fisicamente inferiore al resto d'Europa, la consuetudine per cui chi ha già vissuto in quella cultura poi si reinventi allenatore. “Non devi essere stato cavallo per essere un bravo fantino” illustra in una delle sue frasi-manifesto più celebri a uno studente della Bocconi, nel 1987. In campo, del calcio all'italiana riprende due concetti, il contrattacco rapido e la marcatura stretta, ma li reinterpreta e li ribalta con una visione dello spazio che lascia molti epigoni e un calcio diverso.

La miglior difesa è l'attacco – “Abbiamo segnato 17 gol su palla ferma” spiega a Repubblica dopo il primo scudetto al Milan, “3-4 su azione diciamo così normale, tutti gli altri in contropiede. Ma siccome il nostro contropiede nasce nella metà campo avversaria, è meno appariscente”. La difesa non è più passiva, è la prima fase dell'azione d'attacco: è nata la zona pressing. L'obiettivo è arrivare in superiorità numerica nel punto in cui cade la palla, e recuperarla il più lontano possibile dalla propria porta. Il suo primo Milan squadernava sovrapposizioni e raddoppi, con le linee sempre cortissime. “Se giochi in 30 metri, a organetto, hai grande facilità tecnica” spiega al Corriere della Sera. “Il passaggio è più facile, recuperare palla pure. I Romani conquistarono la Gallia con un sistema nuovo: stando compatti sconfissero il nemico più numeroso”. Quel suo primo Milan è una squadra paradossalmente molto difensiva. In 30 giornate, segna solo 43 gol, ma ne prende 14, e passavano intere partite senza che gli avversari tirassero mai.

Gli uomini fanno le squadre – Non a caso, sono di carattere difensivo i due più grandi meriti che gli si riconoscono: aver fissato, perfezionato la zona e inventato il gioco in fase di non possesso. La sua idea di squadra è una costruzione olistica, organicistica. “Io ho sempre pensato a un calcio globale, ho sempre pensato di avere una squadra non di avere un singolo, e quindi allenavo la squadra per migliorare il singolo, non partivo dal singolo per arrivare alla squadra” dice a IL. Ai giocatori chiede intuizione, memoria, pazienza per interiorizzare i movimenti e saperli ripetere automaticamente, cultura, che vuol dire capacità di capire cosa serve in campo e quale sia il ruolo di ognuno nel sistema di valori della squadra. “Per le mie squadre ho sempre cercato uomini intelligenti, che non si accontentavano, che sapevano mettersi al servizio dei compagni. Robert De Niro avrebbe potuto trasformare in un capolavoro Giovannona Coscialunga? No, sarebbe stato un campione in una squadra scadente”.

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Utopia al potere – È l'utopia di un calcio semplice, che è il più difficile da tradurre in pratica, al potere. Un'utopia che ha bisogno di uomini, prima ancora che di campioni, che si può applicare in ogni dimensione e in ogni categoria (Sacchi, infatti, non è mai retrocesso), che va bene per ogni età. “Dal punto di vista tecnico” scrive Sconcerti, “il campionato Primavera vinto con i ragazzi del Cesena è forse dal punto di vista tecnico il più grande successo della sua carriera. Altri hanno vinto scudetti con il Milan, nessun altro ha vinto campionati Primavera con il Cesena”.

Nessun vero erede – Ha vinto meno di altri, perché bruciava le sue squadre. Le consumava e si è consumato. Al Parma, ha deciso di dire basta nonostante un contratto miliardario, quando ha capito che dopo una vittoria non sentiva più niente. “Se sei vuoto” ha spiegato, “non puoi riempire gli altri”. Unico, “straordinerio”, non lascia veri eredi perché nel suo calcio non c'è nulla di davvero replicabile. È arrivato in un campionato in cui si segnano meno di due gol a partita, nel 1987. Quando tornerà al Milan, dopo l'esperienza in Nazionale, sono quasi tre. Ha cambiato il modo di pensare, ha influenzato la cultura del calcio in Italia come nessun altro. A chi viene dopo non ha lasciato un modulo, uno schema, una strategia, ha consegnato un'idea. “Io non avevo un sistema, non ho un sistema. Ho il gioco del calcio”.

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