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Zico, Maradona e gli altri: quando la serie A era il campionato più bello del mondo

Il calcio italiano negli anni ’80. La riapertura delle frontiere, il Mundial di Spagna, la stagione d’oro di Novantesimo Minuto. Le rivoluzioni tattiche, le coppe e i campioni. Quando l’Italia era il centro del mondo.
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Gli anni del campionato più bello del mondo. Delle frontiere riaperte, delle coppe, dei campioni e dei bidoni. Gli anni dello scudetto del Verona, di Maradona al Napoli e Zico all'Udinese, di Boniek e Platini, di Bruno Conti, Sacchi e Bearzot, della professionalità e del disimpegno, di Drive In e Novantesimo Minuto. Gli anni dei tre volte campioni del mondo e del totonero, di una passione che travolge l'Italia nel segno del pallone e del suo fascino. Mai come negli anni '80 il calcio ha raccontato l'Italia e l'Italia si è rispecchiata in un campo di pallone.

Frontiere riaperte

È il decennio che riapre le frontiere agli stranieri, prima uno poi due per squadra. All'inizio, e a raccontarlo oggi non sembra neanche vero, le squadre cercano buoni giocatori senza voler spendere troppo. L'Inter si muove e fa firmare un pre contratto a Platini, la Roma vira su un brasiliano che non è tutto dribbling e palleggi ma ha geometrie da centrocampista tedesco e con la maglia numero 5 farà impazzire tutti prima di farsi prendere dalla paura di tirare il più importante dei rigori (Falcao, naturalmente). In quei primi anni l'Italia ammira l'ultimo Krol, pilastro della rivoluzione olandese che ha spostato il calcio nell'era moderna, e i balletti intorno alla bandierina di Juary che regala allegria ad Avellino nell'anno triste del dopo-terremoto. Certo, qualche bidone arriva, il primo è Luis Silvio, ala “a sua insaputa” della Pistoiese.

Campioni e bidoni

Quando gli stranieri diventano due, le stelle e i belli di notte si moltiplicano, disegnano costellazioni di sogni per un pubblico che intanto riempie gli stadi come mai prima: la media degli spettatori delle partite della serie A sale da 21.198 a 29.454 tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta. L'Italia incontra il mondo. Si apre alla Perfida Albione e perfidamente rispedisce a casa Luther Blissett, che ritorna nel nome del movimento collettivo di scrittori, e Mark “Conan” Hateley, di cui resta solo un colpo di testa in un derby con stacco perentorio su Collovati che segna la fine dei giorni felici degli interisti.

Si apre alla Polonia di Boniek e alla Francia di Platini, a quel che rimane della scuola danubiana (Prohaska) e al fascino dei sudamericani con la genialità di uno Schiaffino. La Firenze ancora rinascimentale non comprende fino in fondo la rivoluzione democratica del filosofo Socrates, Udine parteggia per il Galinho che fa alzare in piedi tutto il Cibali con un gol a Catania e illude i bianconeri con la doppietta nel 5-0 a Marassi contro il Genoa nel giorno della sua prima in A, dopo i vincoli, l'opposizione della federazione e i tifosi che in ritiro gridano “o Zico o Austria”.

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Oh mamma, ho visto Maradona

C'è già, ad attraversare l'Italia, la passione che travolgerà Napoli quando arriva Maradona. "Voglio diventare l'idolo dei ragazzi poveri di Napoli, perché loro sono come ero io a Buenos Aires" dirà poi alla presentazione ufficiale al San Paolo il 5 luglio 1984 in quella “Woodstock Napoletana” scriveva il nostro Mattia Sparagna, “un giorno indimenticabile per tutti che inebriò la città e gli animi di tutti i tifosi che, grazie ad una dote da veggenti, stavano già gustando i piaceri che Maradona gli avrebbe fatto vivere. Al San Paolo accorsero tutti, tifosi di tutte le estrazioni sociali, dai più umili ai più abbienti, dai meno colti ai professori. Tutti in piedi ad ammirare quel ragazzo che per 7 anni li avrebbe deliziati in ogni modo e maniera, facendogli prendere rivincite su tutti i campi e alzare trofei che mai più furono conquistati”.

Il Mundial

Quell'Italia che fa barriera contro il terrorismo, che piange per il piccolo Alfredo Rampi a Vermicino, si riconosce in un presidente che va a esultare al Bernabeu quando i tedeschi “non ci prendono più” e poi gioca a scopone con Zoff sull'aereo con accanto la coppa del mondo. La nazionale degli abatini, di Bruno Conti detto Marazico, di Tardelli e Scirea, del silenzio stampa e del tutti sul carro dei vincitori costituisce e costruisce l'amnistia per lo scandalo del primo Totonero, un giro un po' artigianale di scommesse illegali gestito dal gestore di un banco di frutta e dal proprietario del ristorante “La Lampara”, famoso come scrive John Foot nel suo “Calcio”, per i piatti di pesce surgelato che sembra fresco.

La tv commerciale e 90° minuto

È la riabilitazione di Pablito Rossi, del meglio del calcio all'italiana. E fa da spartiacque a un decennio che cambia il tifo e apre al calcio sulle televisioni private: Canale 5 compra il Mundialito e poi i diritti delle italiane nelle coppe europee, Odeon tv acquisisce e poi rivende alla Rai dopo una trattativa accesa la diretta di Real Madrid-Napoli del 1987. Ma la Rai ha il suo rito domenicale, la sua celebrazione del bar sport, la sua commedia dell'arte pallonara: Novantesimo Minuto.

Dopo lo stadio e la radio, dopo lo Stock 84, per festeggiare se la tua squadra ha vinto o per consolarti se la tua squadra ha perso, tutti sul divano alle 18 per vedere i gol e lo spettacolo d'arte varia che gli inviati delle sedi regionali offrivano settimana dopo settimana. Tonino Carino raccontava dell'Ascoli di Costantino Rozzi e Carletto Mazzone, Luigi Necco del Napoli di Maradona chr rispondeva ai richiami del Milan e dell’Avellino di Diaz e Barbadillo. Ferruccio Gard narrava dell’Udinese di Zico, Giorgio Bubba del Genoa e della Sampdoria, Cesare Castellotti del Torino di Junior.

Il Milan di Sacchi

Un mondo destinato a sparire insieme a Paolo Valenti. Un universo alimentato dagli Juventus-Roma delle polemiche, dei maestri di stile Agnelli e Viola e “der go'” di Turone, che accelera dal moderno verso il futuro quando un presidente scende da un elicottero per presentare la nuova squadra. La discesa in campo, è proprio il caso di dirlo, di Berlusconi cambia la storia. Irrompono il calcio business, le rose ampie, il marketing e le spese folli, l'immaginario stesso delle sue televisioni. Una trasformazione, una rivoluzione che ha il braccio e la filosofia di un maestro perfezionista e dogmatico come Arrigo Sacchi cresciuto guardando un'ispiratrice lapide davanti al palazzo del municipio di Fusignano.

"Negli ideali della storia, ne' miti della leggenda, c'è una linea oltre cui comincia il delirio", c'è scritto. Ossessionato dal lavoro, paranoico nella cura dei dettagli preludio della vittoria, condannato all'insoddisfazione come tutti i perfezionisti, non voleva calciatori, desiderava giocatori. “Si arriva al traguardo quando tutti sono umili, uniti e convinti del gioco che fanno” diceva a Repubblica dopo il primo scudetto. “Nessun giocatore, per quanto grande, possa sostituirsi al gioco. È il gioco che fa il giocatore”.

Verso il moderno

Il finale lo scrivono gli olandesi del Milan contro i tedeschi dell'Inter del Trap e del record di punti. Una storia che diventa geografia, il pallone esce per l'ultima volta dalle province e ritorna ad essere faccenda rinchiusa fra due dei vertici del triangolo industriale, fra Milano e Torino, fra sarti, giornali e turisti internazionali. E l'Italia che ha dominato l'Europa, con le coppe e con i campioni, nella gioia e nel dolore di una notte in Belgio che nessuno avrebbe voluto vedere, gradualmente smetterà di avere il campionato più bello del mondo. Resterà solo la nostalgia e un oceano verde dietro le spalle.

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