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Verso il Mondiale: Argentina, la grande chance di Messi

Leo Messi è il vero erede di Maradona. Li separano due centimetri, li dividono due titoli mondiali. L’Argentina è lo specchio di una nazione che oscilla tra la cattiveria e la bellezza.
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In Argentina per avere autorità in spogliatoio devi essere un caudillo, devi conquistare i tuoi sostenitori in spogliatoio. Ma Leo Messi, il Godot della provvidenza che in nazionale ancora aspettano, è un guerriero dallo sguardo infantile. Già a scuola Messi non parlava, racconta la sua prima maestra, c'era una compagna di banco che "interpretava i suoi pensieri". Però tutti volevano giocare con lui: esercitava la sua autorità con i fatti, non con le parole. “Il silenzio di Messi non è il silenzio di chi si estrania per riflettere: è il silenzio del calciatore che ci diverte e che, divertendosi, non ha nulla da aggiungere” scrive Leonardo Faccio in un bellissimo articolo sul mensile peruviano Etiqueta Negra. Si diverte ma non ride mai, in campo, Messi: il calcio è una cosa seria, solo 25 Paesi al mondo hanno un PIL superiore al giro d'affari del football.

Le analogie con Maradona – Per tutti, anche per il Pibe de Oro, Messi è il vero erede di Maradona. Le analogie, nel bene e nel male, sono tante. Come Diego, anche Messi palleggiava con gli agrumi: ne faceva 97, da bambino, con un'arancia, e 130 con una pallina da tennis, in una sequenza poi finita nello spot di una carta di credito. Li separano solo due centimetri, Leo ne ha guadagnati 37 in dieci anni grazie alle iniezioni di ormone della crescita. Proprio il deficit di Gh ha trasformato il calcio in una necessità per il campione del Barcellona. Le cure infatti costavano 1000 dollari al mese, più della metà dello stipendio di papà Jorge Horacio, che aveva giocato, come farà il figlio, nelle giovanili del Newell's Old Boys ma ha lasciato il calcio per il servizio militare, il matrimonio e un lavoro in un industria siderurgica. Li avvicinano anche i guai con il fisco: insieme al padre è stato incriminato per un'evasione fiscale di 4 milioni sui proventi dei diritti d'immagine per il periodo 2007-2009. Jorge ha chiuso la pendenza pagando 5 milioni, comprensivi di interessi, e Messi è stato assolto. Li dividono, però, i titoli mondiali. Maradona ha preso in mano l'albiceleste e l'ha portata a due trionfi. Messi doveva essere l'arma numero 1 del Pibe diventato allenatore in Sudafrica, ma è tornato con la faccia triste. In questo la Pulga, la Pulce, è ancora il “bambino che non poteva crescere”, titolo di una sua bella biografia, che ancora piange per la frustrazione dopo una sconfitta e oggi vomita senza sapere perché.

La noia – Messi ha rotto tutti i cliché del campione. La sua famiglia vive ancora a Rosario, la terza città più grande d'Argentina, nel quartiere di Las Heras. Abitano in una casa in cima a una collina, alla fine di una strada stretta, circondata da un bosco di pini, dove i mezzi pubblici non arrivano. Ha una sola concessione alla vanità, effimera e intoccabile: i profumi alla moda. Non gli piace apparire, non ha love story da copertina, è fidanzato con la cugina del suo migliore amico, Lucas Scaglia. Si annoia a guardare il calcio in tv, non legge libri e non guarda le serie tv. Dopo gli allenamenti, semplicemente, come i bambini, Messi dorme. Lo faceva da piccolo per crescere, perché aiutava a rigenerare le cellule. Oggi lo fa perché è un antidoto alla noia.

Tevez no?Poche le chance di vedere Tevez tornare in Brasile, dove era arrivato tra le proteste al Corinthians del miliardario indiano Joorabchian riuscendo in breve a farsi amare e diventare capitano. In rotta con la nazionale dalla gestione Maradona, di cui ha indossato la maglia numero 10 al Boca (e proprio per passare agli Xeneises, a 12 anni, cambia legalmente il suo cognome, Martinez, prendendo quello della madre), come el Pibe de Oro è cresciuto in una periferia povera, Fuerte Apache, all'estrema periferia ovest di Buenos Aires, diviso dalla città dalla tangenziale General Paz, chiamato così dal film “Fort Apache the Bronx” di Daniel Petrie. Un destino comune a tanti campioni, quello di riscattare un'esistenza nata in povertà, come se la fame, quella reale, costituisse un’arma in più, una condizione sufficiente (anche se non necessaria) a determinare una maggiore fame sportiva.

Contraddizioni – L'assenza quasi certa dell'Apache è solo una delle contraddizioni di un Paese polifonico, in cui il calcio ha seguito e rispecchiato le anse di una storia travagliata. Sono gli inglesi, secondogeniti senza futuro e pecore nere in cerca di redenzione o di fuga che partivano da Southampton, a costruire le prime ferrovie e introdurre il calcio in Argentina. Nel 1891 nasce la prima lega calcio, e nel 1893 la Argentine Association Football League, che diventerà l’Afa (e nel 1934 «football» diventerà «fùtbol»). Si manifesta subito una differenza di stile: in Argentina il calcio è sport per poveri, che in quanto povero si accontenta di spazi stretti. Nasce il gioco criollo, che Eduardo Galeano sintetizza a meraviglia: il calcio è come il tango, il campo come una milonga. «I ballerini disegnavano filigrane avvinghiandosi su una sola mattonella e i calciatori inventavano un loro linguaggio nel minuscolo spazio nel quale la palla non era calciata, ma trattenuta e posseduta, come se i piedi fossero mani che intrecciavano il cuoio. E nei piedi dei primi virtuosi creoli naque el toque, il tocco: la palla suonata come fosse una chitarra, una fonte di musica». Nel 1913 il Racing Club di Buenos Aires, una squadra di soli calciatori argentini, vince il campionato. È il segno di un percorso lento ma inesorabile.

Garra e bellezza – Negli anni '60 la parola d'ordine per la nazionale argentina è “garra”, grinta, cattiveria. Sono gli anni dell'Estudiantes della Bruja, Veron padre, che impone lacrime e sangue, e non in senso metaforico, a Milan e Manchester United in Coppa Intercontinentale. Sono gli anni di Argentina-Inghilterra al Mondiale del '66, finita con Sir Ramsey che etichetta gli argentini come animali e Antonio Rattin, espulso, accolto in patria da eroe e avvolto nella bandiera nazionale. Dopo i fallimenti della prima metà degli anni Settanta, la “Riorganizzazione nazionale” della junta militare del generale Videla scorre parallelamente alla riorganizzazione della nazionale, che si riappropria del concetto primigenio del calcio come bellezza. L’uomo nuovo diventa Cesar Luis Menotti, detto «el Flaco» (lo smilzo), politicamente radicale: ideologicamente è l'uomo più lontano possibile dalla dittatura, ma è il migliore di tutti, e i generali hanno bisogno del trionfo sul campo perché l'opinione pubblica dimentichi la “guerra sporca”, i 9 mila desaparecidos accertati dalle indagini ufficiali, tra cui il fratello dell'allora attaccante del River Plate Roberto Moresi, le proteste silenziose delle madri di Plaza de Mayo, intimidite dagli hooligans delle curve mandati dai generali. Tra partite truccate (il 6-0 al Perù che aveva in porta un argentino naturalizzato) e arbitraggi più che casalinghi, il trionfo arriva e lascia una domanda aperta: Menotti, con il suo calcio fatto di bellezza ed eleganza, ha aiutato il regime portando la nazionale alla vittoria, o si è opposto alla dittatura facendo trionfare la bellezza sulla forza?

I maestri inglesi – “Un argentino è un italiano che parla spagnolo e crede di essere inglese” recita un significativo aforisma che rappresenta un aspetto del carattere nazionale e testimonia l’ammirazione del popolo argentino per gli inglesi. Ma di pari passo con l’ammirazione corre un risentimento profondo, ed è la combinazione di questi due sentimenti contrastanti che rende così unica la rivalità tra Argentina e Inghilterra quando si tratta di calcio. «Vincere contro l’Inghilterra è come per gli allievi sconfiggere i maestri» ha spiegato l'ex capitano albiceleste Roberto Perfumo. È per questo che Maradona, nella sua autobiografia, parla così della “mano de Dios” con cui ha beffato Shilton e aperto il quarto di finale più memorabile nella storia dei Mondiali: «È stato un po’ come rubare il portafoglio a un inglese». Per questo, dice, ancora oggi un po’ preferisce quel gol al secondo, segnato appena quattro minuti dopo, quello che tutti ormai definiscono il “gol del secolo”. «Fu la nostra vendetta per la guerra delle Falkland» spiegherà il Pibe de Oro. La rivalità ha scandito anche l'era moderna dell'Argentina con un'intensità rara che spiega le provocazioni di Simeone a Beckham, che verrà espulso nell'ottavo di finale di Francia '98 segnato da un altro gol spettacolare, l'assolo di Michael Owen, e i pugni e i cori sulle Falklands nell'amichevole del 2005, ultima sfida tra le due nazionali.

L'Argentina oggi – Nel pendolo tra garra e bellezza in cui muove la storia e l'evoluzione calcistica argentina, oggi l'albiceleste è certamente più vicina allo stile originario. È una nazionale a trazione visibilmente anteriore, con Sabella che può scegliere tra Rodrigo Palacio, Gonzalo Higuain, Sergio Agüero, Ezequiel Lavezzi. Ma ha problemi di personalità in difesa, che giocatori come Campagnaro o Roncaglia potrebbero ridurre, e incertezze pesanti in porta. Romero, in prestito al Monaco, Andujar, Carrizo, Orion (che si è trovato a difendere la porta del Boca in una stagione fallimentare) non hanno convinto e il nome nuovo sembra quello di Willy Caballero, il numero 1 del Malaga. Basterà per far finalmente ridere Leo Messi?

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