Sarri, Ventura, Di Francesco: né maestri, né professori ma veri (e bravi) allenatori
Tre generazioni, una stessa visione. Ventura, Sarri, Di Francesco: tre stili, una stessa passione, insegnare a giocare a pallone. Perché il calcio è scienza tanto astratta quanto semplice e gli uomini vengono sempre prima dei numeri e dei moduli.
L’uomo in tuta – Anche Sarri è uomo di mare, e come l’Ulisse del mito dopo infinito peregrinare è tornato a casa. Vissuto a Bagnoli fino ai tre anni, perché il padre (37 vittorie da ciclista dilettante) che lavorava sulle gru ed era di stanza a Napoli allora, è un migrante di ritorno. È uno di quegli allenatori che come li vedi, li scrivi, con quella tuta a fare da bandiera. Il vessillo di un calcio artigianale, del rifiuto dei ricami, della sostanza al servizio del risultato. Con quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così, che tanto ricorda il boss Savastano della serie Gomorra, si fa emblema dell’allenatore operaio. E paga, all’inizio, qualche pregiudizio. Difensore roccioso e con poco talento del Figline, rifiuta per ripicca l’offerta del Pontedera, rimane e si rompe tutto. Finisce a lavorare in banca, si occupa di transazioni per la Banca Toscana, del gruppo Montepaschi. «E molti hanno pensato che fossi uno sprovveduto» raccontava. Ma dietro l’artigiano, dietro il lavoratore, c’è lo scienziato con la fama dei 33 schemi posseduti che ancora gli è rimasta attaccata dai suoi tre anni alla Sansovino.
C’è il tecnico che scrive senza sosta durante le partite, per fissare le cose da dire all’intervallo e segnare i minuti chiave delle azioni da montare per analizzare poi il match con i giocatori il giorno dopo. E l’allenatore che studia tattica 13 ore al giorno, che legge Bukowski e Vargas Llosa, che non potrebbe vivere senza l’odore della carta e per primo ha introdotto il drone per riprendere gli allenamenti, a Empoli. «Rispetto ad una telecamera fissa in tribuna – spiegava al Tirreno il vice, Francesco Calzona – il drone ha il vantaggio di avere una telecamera a grandangolo che ci permette di inquadrare una grande porzione di campo e quindi di riprendere la quasi totalità del terreno di gioco». Perché il tutto, anche nel calcio di Sarri, è molto di più della semplice somma delle parti.
Ventura, uomo di mare – Ne ha visti tanti, di mari e di deserti, Giampiero Ventura, il più anziano degli allenatori di serie A. Ha allenato nelle Repubbliche Marinare: a Genova, a Pisa, a Venezia e nel primo Napoli di De Laurentiis. E' il suo habitat, per lui che arriva da Cornigliano, sobborgo genovese da ballata di De Andrè. "Non ero né ricco né povero, né di qua né di là. Ma nulla mi ha mai parlato così forte come il silenzio di quella gente che entrava in fabbrica con la gavetta in mano". Ha giocato nelle giovanili della Samp con Lippi, ha allenato Luciano Spalletti all’Entella, ma è rimasto marinaio del pallone. «Il mare è silenzio, riflessione, gioia, a volte angoscia; romanticismo, energia. E' tutto. Nel mare, i se, se li portano via le onde» diceva. A Venezia ha fatto impazzire i tifosi e riempito il Penzo, ha battuto Fiorentina e Juventus giocando un 3-4-3 fluido che costringeva i calciatori a far correre il pensiero prima ancora della palla. A Lecce, ancora lo adorano per il doppio salto di categoria dalla C alla A, con giocatori funzionali a un’idea, non a un modulo. "Le qualità di un giocatore sono come la coperta di un letto. I genitori danno la qualità del tessuto e l’elasticità della fibra. Il nostro lavoro deve essere mirato ad allargare la coperta senza rovinare le fibre".
Ma è Cagliari che debutta in Serie A e scrive un primato che ne descrive la cifra umana e stilistica: resiste quattro anni con Cellino, e non è da tutti. "Prima di conoscerlo avevo un ciuffo alla Little Tony. Con lui ho perso tutti i capelli", raccontava. In Sardegna, prima di Obama scriveva in spogliatoio “Se vogliamo, possiamo”. E il Cagliari vuole. Il Cagliari può. I tifosi si divertono, i giocatori pure: Muzzi, Zebina, Vasari, Fabian O’Neill, «il più forte che ho allenato» spiega. Perfino Conte le deve qualcosa. È Ventura il primo a riportare in serie A il 4-2-4, il modulo della Grande Ungheria e del Sao Paulo di Bela Guttman che Vicente Feola cucirà attorno a Didi, Vavà e Pelè al Mondiale di Svezia del ’58. Mezzo secolo dopo, in Italia lo sperimentano in pochi, e solo nelle serie minori: Ezio Glerean a Cittadella e Antonio Toma a Pisa. Ventura arriva in nerazzurro proprio per sostituirlo e fa esplodere Cerci. Porta il Bari, con la stessa formazione, al miglior campionato della sua storia in serie A, ma dentro rimane il figlio dell’operaio dell’Italsider che, quando era allenatore a Pistoia, chiedeva l’autografo al suo idolo Francesco Guccini venuto ad assistere a un allenamento. Un nuovo Scopigno che ha attraversato l’Italia con una squadra di collaboratori fidati, come il preparatore atletico Innocenti, l’allenatore dei portieri Zinetti e Carmelo Palilla, prima suo giocatore, poi suo vice. «Siamo un’impresa che costruisce calcio a tempo pieno».
La forza dell'esempio – A Di Francesco, invece, leggere e studiare piaceva meno. «Però, grazie ai tanti ritiri vissuti da calciatore ho letto molti libri e mi posso considerare un autodidatta. La mia vera base culturale è aver assorbito come una spugna i valori forti e autentici che mi ha trasmesso la famiglia» raccontava alla Gazzetta dello Sport. Sarà per gli occhiali, scherza, ma ormai il tecnico che ha rinnovato col Sassuolo fino al 2017 passa per intellettuale. "Urlare non serve, il sergente di ferro è una figura da preistoria del calcio" dice. Perché adesso "è diminuita la distanza tra l’allenatore e il calciatore. L’aspetto psicologico e motivazionale ora va di pari passo con quello tecnico-tattico. Ridurre tutto il calcio a numeri e a tecnicismi forzati è sbagliato quanto parlarne solo in relazione al gossip e al giudizio superficiale sui singoli protagonisti". Romanista cresciuto al fianco di "anima candida" Tommasi, capace di fermare due volte la Roma all'Olimpico. è presidente da dieci anni della onlus William Bottigelli, dedicata al figlio di un ex massaggiatore del Piacenza che aiuta i bambini in difficoltà. In squadra ha introdotto un codice etico come Prandelli in nazionale. La prima regola è per tutti il rispetto della puntualità e l’educazione.
"Chi sgarra nei confronti dei compagni sa che pagherà una multa che poi andrà per scopi solidali. Se non sei capace di dire buon giorno e buona sera al vicino di casa non sarai mai un uomo vero fuori e, quindi, neppure un campione in campo. Se un tifoso viene e ti chiede un autografo devi essere disponibile, perché verrà il giorno che rimpiangerai tutta quella gente e quei bambini che adesso ti chiedono una firma su un foglio perché ti vedono come loro punto di riferimento" raccontava. E le sue non sono solo parole. Il suo miglior ritratto l’ha firmato Francesco Magnanelli, che ha letto in spogliatoio la mail di Stefano Borgonovo prima dello scontro promozione contro il Livorno: "Che fate, avete paura di vincere il campionato?". In un’intervista per la rivista belga “Sport Voetbal Magazine” per il primo campionato in A, ha citato Giulio Cesare per raccontare lo stile del tecnico: "La parola conduce, l’esempio trascina".