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Serie A a 16 squadre, come sarebbe e perché è un affare

De Laurentiis ha rilanciato un’antica idea: riportare la Serie A a 16 squadre. Il campionato sarebbe più competitivo e più appetibile anche per le televisioni. L’incertezza non è però il principale fattore che spinge i tifosi allo stadio. E servirebbe una radicale riforma di tutti i campionati.
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"Nel 1986 in serie A eravamo 16 squadre, ora siamo diventati 20. Se fossimo ancora 16 con una sola retrocessione, saremmo tutti più felici e competitivi". Lo scarso appeal, l'insufficiente competitività del campionato di serie A rimane una delle battaglie del presidente del Napoli Aurelio De Laurentiis, che è tornato qualche tempo fa sull'argomento a Radio 24. "Abbiamo squadre che perdono 6-0, ho affrontato il problema con Tavecchio, lui dice che dobbiamo imporci noi. Dobbiamo sederci intorno ad un tavolo e decidiamo, come fa la Uefa, come rimodulare il calcio. Ma non c'è la capacità reattiva di decidere. Sono in crisi gli uomini che conducono le danze di un calcio che è un'industria. Lo conducono con una mentalità di 20 e 30 anni fa che non paga più".

L'eventuale riforma, ha spiegato Pantaleo Corvino al Corriere dello Sport, andrebbe valutata da due punti di vista, "economico e tecnico. Il primo comporterebbe vantaggi per le iscritte nella ripartizione dei diritti tv. Quello tecnico significherebbe avere più tempo per preparare le gare, non trascurando gli impegni internazionali e pure quelli delle Nazionali, con meno turni infrasettimanali".

Un po' di storia: la prima volta fu nel 1934/1935

Iniziamo dal punto di vista tecnico. Il primo passaggio a 16 squadre coincide con il primo campionato dopo il titolo mondiale del 1934. Giorgio Vaccaro opta per la riduzione per due motivi. Voleva aumentare il valore delle nostre squadre di club, che iniziano ad affrontare avversarie straniere, inglesi e tedesche soprattutto, come il Bologna che tremare il mondo fece nel torneo per l'Expo di Parigi del 1937. E d'altra parte serviva una riforma che riducesse i viaggi, e di conseguenza i costi, con i venti di guerra all'orizzonte. Si giocherà a 16 squadre fino al 1943, e si segna tanto in quell'epoca pionieristica: 2,72 gol a incontro.

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Si torna a 16 squadre dopo la Corea

E' la peggior sconfitta in un Mondiale a convincere, poi, a ridurre ancora la Serie A da 18 a 16 squadre. Dopo la figuraccia con la Corea del Nord del 1966, il calcio italiano chiude le frontiere agli stranieri, oriundi compresi. Diminuiscono i buoni giocatori e le squadre iscritte al campionato. Si procede così per 21 anni, con 2,05 gol partita "e l’annunciato record di 0-0, ben 72 su 304 partite, nel 1978-79 – spiegavano Fiorenzo Radogna e Maria Strada sul Corriere della Sera -. Quell’anno, e il successivo, la media reti scese a 1,9 gol partita, cioè 15 a incontro, ma non furono le stagioni peggiori: il primato appartiene al 1972-73 con 449 reti totali, 1,87 a gara".

Meno squadre, più equilibrio

I due punti per vittoria e la bassa quota salvezza favorivano un atteggiamento iper-difensivista, quella deriva dell'antico calcio all'italiana che era difesa sì, ma anche contropiede. Anche se riuscire a un gol subito fa diminuire la probabilità di vittoria più di quanto una rete segnata in più la faccia salire. Al di là dei gol, però, si trattava di campionati più equilibrati.

Il calcolo dell'equilibrio competitivo

Per capire quanto, abbiamo preso in considerazione le ultime due stagioni a 16 squadre e i due più recenti campionati attraverso uno dei più usati indici di concentrazione, l'indice di Hirschman-Herfindahl per l'equilibrio competitivo. La misurazione si basa sulla percentuale di punti di ogni singola squadra nella classifica finale: si sommano i quadrati della share of points di ogni squadra e si divide il risultato per l'inverso del numero di squadre che partecipano al campionato.

Il confronto dei valori

In questo modo, si possono confrontare valori anche di campionati con numeri di squadre diversi. In un campionato perfettamente equilibrato, in cui tutte le formazioni finirebbero a pari punti, l'indice (moltiplicato per 100 perché sia più leggibile) darebbe un valore 100. Ogni aumento denota una diminuzione dell'equilibrio, ecco un esempio in termini numerici

  • 1986/1987 – 106,36
  • 1987/1988 – 105,77
  • 2015/2016 – 110,35
  • 2016/2017 – 114,30

Già da questo primo confronto è chiaro come il campionato con meno formazioni risulta più equilibrato. Sarebbe anche un vantaggio dal punto di vista economico?

L'Italia dipende troppo dalle tv

Detto in altri termini, le televisioni sarebbero favorevoli? Dai diritti tv, sottolinea anche l'ultima analisi Deloitte per il 2016, dipende il 61% degli introiti stagionali delle squadre italiane, una dipendenza decisamente più alta di quanto si registra negli altri principali campionati europei (Premier League 53%, Liga 48%, Ligue1 44%, Bundesliga 31%). Il minor numero di partite farebbe scendere l'offerta dal miliardo di euro attuale.

Maggiore competitività, più appeal e concorrenza

Ma la maggiore competitività alimenterebbe la concorrenza e difficilmente si vedrebbero aste deserte e pacchetti non assegnati per un prodotto più appetibile. Il minor numero di partite per giornata e l'aumentata competitività permetterebbe alle tv di mantenere lo "spezzatino" ma conservare almeno una partita interessante in ciascuno degli attuali 4-5 slot. In questo modo, scriveva Jacopo Piotto su Ultimo Uomo, "gli slot a disposizione in tutta la stagione passerebbero da 190 (5 per 38 giornate) a 150 (5 per 30). Se 190 slot valgono 1000 milioni, 150 in proporzione dovrebbero generare offerte per almeno 790, che suddivisi tra 16 squadre fanno 49,34 milioni a testa in media. La perdita media sarebbe dell’1.32%".

In sostanza, i diritti tv di una stagione varrebbero, al primo anno, quanto Mediaset ha offerto per trasmettere le 248 partite dell'attuale accordo. Ma alla Lega magari non arriverebbero lettere di protesta dalle tv per il poco appeal dei posticipi serali e l'insoddisfacente programmazione delle big.

I tifosi: l'incertezza porta i tifosi agli stadi?

L’equilibrio competitivo, l’incertezza sull’esito della stagione, rimane un fattore in relazione con il comportamento dei tifosi ma non appare come la motivazione principale alla base della domanda di calcio, influenzata anche da fattori come la rivalità fra le squadre. In Francia, ad esempio, l’effetto Psg ha tenuto sopra il 66% l’affluenza media in Francia negli ultimi tre anni. La Liga, il più squilibrato dei cinque principali campionati europei, si è mantenuta sopra il 70% di presenze negli stadi in quattro degli ultimi cinque anni anche se Barcellona, Real Madrid e Atlético raccolgono da soli un terzo delle presenze. In Bundesliga, la seconda lega sportiva più popolare l’anno scorso dietro l’Nfl, la corrispondenza fra incertezza e affluenza è perfetta: più il campionato è equilibrato, più l’affluenza sale.

Nel complesso, però, l’incertezza sul risultato delle partite e della stagione appare certamente un fattore determinante più nell’andamento della fruizione televisiva del calcio. Nella presenza dei tifosi sugli spalti, è più l’home advantage, la probabilità che sia la squadra di casa a vincere, o la qualità del campionato (la distribuzione del talento, la presenza e la concentrazione di star internazionali) a fare la differenza.

Serve una radicale riforma dei campionati

Tornare alle 16 squadre in serie A dovrebbe comunque essere un passo di una più generale riforma dei campionati. Si potrebbe, e forse si dovrebbe, ripensare anche la serie B, che avrebbe tutto da guadagnare dallo spartire la torta fra meno soggetti, e una radicale ristrutturazione della Lega Pro, condizionata ogni anno da fallimenti, calendari senza certezza sulle partecipanti, gironi con un numero dispari di formazioni. Bisogna ricostruire la base della piramide perché il vertice possa ritrovare competitività e appeal. Perché un campionato incerto fa meglio a tutti i soggetti, anche alle grandi. E un campionato scontato è un prodotto meno appetibile per sponsor e tv, più povero che non può più attirare le grandi stelle del mondo del pallone.

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