Se il calcio italiano vuole rinascere faccia come il Napoli di Sarri. E lasci giocare Insigne
La domanda fin troppo abusata e inutile di questi giorni è: "Qual è la prima cosa che serve per far ripartire il calcio italiano?". Le risposte sono come sempre tante e spesso guidate dai pochi ‘opinion leader' che pensano basti Ancelotti, un nuovo presidente Figc e una serie A a 18 squadre per cambiare le cose. Dopo aver criticato il giochino della domanda e risposta, dico anch'io la mia: per cambiare davvero le cose nel calcio italiano dovrebbe vincere il Napoli di Maurizio Sarri.
Sicuri che il pragmatismo paghi sempre alla lunga? Dopo una serie di riconoscimenti a Sarri, Allegri sia ad aprile sia a ottobre di quest’anno dice alla stampa una frase molto semplice: "Vincere è più difficile che essere belli e in fin dei conti non serve per raggiungere le vittorie". Questa frase è quello che pensiamo noi, anzi quello che siamo noi, da sempre, nel calcio. Di squadre belle nella storia del calcio italiano ce ne sono state tante eppure nessuna è riuscita ad affermarsi, venendo sempre sconfitta da squadre pratiche, che hanno giocatori di grande esperienza, che sanno andare oltre la qualità del gioco, mettendo in campo personalità, autorità, storia, forza fisica, intensità agonistica, capacità di non mollare anche quando sembra che la barca affondi.
Questo è stato da sempre il nostro calcio e ne dobbiamo essere fieri. Ma se prendiamo la frase di Allegri e la inseriamo in un contesto pratico, quale può essere la gestione della Nazionale negli utlimi due mesi, quella frase e quel pensiero diffuso ha portato con sé una serie di conseguenze. Partiamo con l’inizio del disastro che nasce dall’idea che le amichevoli non sono roba nostra, per cui è meglio giocarle senza impegno. La seconda fascia ai sorteggi che ci ha dato in dote la Spagna viene fuori da un’amichevole del 15 giugno 2015, persa contro il Portogallo con gol di Eder. Giocammo ovviamente male e senza sudare. Tanto, se seguiamo il ragionamento di Allegri, poi basta essere concreti al momento giusto.
Il diluvio dopo la Spagna. Iniziamo il girone e già prima di andare in campo lo stesso ct dice che è molto probabile un secondo posto. Ma non abbiamo appena battuto la Spagna agli Europei? Sì, ma le qualificazioni noi le facciamo “storicamente” (questa parola dobbiamo iniziare a dimenticarla) senza l’ansia del dover per forza dare 9 gol al Liechtnestein. Andiamo in Spagna e giochiamo senza una logica, torniamo a casa e la squadra si sfalda, con una riunione di soli calciatori che ha disintegrato il rapporto con lo staff tecnico. Prima della Svezia parliamo di Apocalisse impossibile, di sorteggio da giocare ma tutto sommato solamente da vincere. Perdiamo in Svezia e nella buriana più totale continuiamo a dire “siamo l’Italia, siamo l’Italia, siamo l’Italia, siamo l’Italia”, come se questo mantra potesse distrarre gente che gioca a calcio con più cazzimma di noi.
Siamo fuori dai Mondiali e quella frase, il bello non vince, giocare bene non serve, l’utile e la qualità sono distanti alla resa dei conti, è il nostro spirito, la nostra anima calcistica. Quella frase non può non essere il grande errore da cui tutto questo disastro è iniziato. Il Napoli di Sarri è amato e onorato da tutti gli allenatori europei e non ha un attaccante titolare in Nazionale. Non era mai successo, anche il Verona scudettato aveva Elkjaer e Galderisi titolari di Italia e Danimarca. Ripartiamo dal Napoli di Sarri e speriamo davvero che riesca a vincere, pensando che serva questo, prima di tutta la ridda di novità che vorremmo portare, per far cambiare finalmente rotta al calcio italiano.