Report Calcio 2016: Italia povera e piena di debiti
Il calcio italiano è sempre più povero e indebitato. I numeri del Report Calcio 2016 non mentono: il campanello d'allarme è sempre più forte.
I numeri della crisi – Dopo tre anni di relativa stabilità i dati del rapporto curato dalla Federcalcio insieme ad AREL e PwC, , che si riferiscono alla stagione 2014-15, testimoniano il significativo peggioramento del risultato netto negativo. Le perdite, infatti, salgono da 317 a 536 milioni (+69,1%), con un tasso tendenziale preoccupante: un aumento del rosso del 5,7% annuo dal 2010 al 2015. Parallelamente, il valore della produzione, dopo un triennio di crescita, cala del 3,7% (2,625 miliardi). Nel corso della scorsa stagione, le squadre professionistiche, dalla serie A alla Lega Pro, hanno visto i costi salire oltre i 3 miliardi (+2,8% su base annua), la cifrà più alta del quinquennio. E la situazione patrimoniale è ancora più critica. Il patrimonio netto cumulato delle squadre professionistiche in un solo anno è precipitato da 273,4 milioni a 37,2 milioni, zavorrato dal risultato negativo della serie A, che presenta anche un pesante 42% di debiti finanziari. Numeri che si traducono in quattro squadre non iscritte ai campionati, senza contare le società come il Parma fallite prima di presentare domanda, e i 56 punti di penalizzazioni assegnati per il mancato rispetto delle norme.
Serie A – In serie A, al netto del Parma (essendo fallito non rientra nelle rilevazioni), il deficit in una sola stagione è più che raddoppiato, passando da 185,5 a 379,2 milioni. La serie A è meno ricca, il valore della produzione è sceso rispetto al 2014 da 2,3 a 2,2 miliardi. Il valore del nostro campionato, è questo il suo limite più evidente, è alimentato praticamente solo dai diritti televisivi e dai ricavi da botteghino (221,7 milioni). La cavalcata della Juventus fino alla finale di Champions, e il percorso di Napoli e Fiorentina fino alla semifinale di Europa League, spingono i diritti televisivi distribuiti in serie A sopra il miliardo (1.031,9 milioni): da soli, rappresentano il 47% della ricchezza della serie A, la percentuale più alta di sempre in un campionato che paga la mancanza cronica di una effettiva politica di diversificazione delle fonti di ricavo. Il nuovo contratto per il triennio in corso, finito sotto la lente dell'Agcom, non fa che attirare le squadre con le sirene di cifre più alte (nelle casse dei club arrivano un centinaio di milioni in più) e insieme aggravare la tendenza italica alla conservazione dello status quo. Salgono anche i ricavi commerciali da 344,2 a 360,9 milioni. Ma il confronto con il resto d'Europa dimostra in maniera lampante l'arretratezza della serie A.
Italia vs Europa – Nell'ultimo quinquennio, i diritti tv hanno pesato per oltre il 60% nei bilanci delle squadre italiane qualificate alla Champions League. Nel resto del Big 5 (Premier League, Liga, Bundesliga, Ligue 1), l'incidenza non supera il 40%. La Champions porta, alle squadre italiane, più presenze allo stadio (+3,6%) e più diritti tv (5,8%), ma non incide sulle sponsorizzazioni, il cui impatto sul fatturato delle squadre italiane in Champions è sceso dal 27 al 18% in cinque anni. Nello stesso periodo, al contrario, gli sponsor hanno finito per incidere per il 39% sui ricavi dei club inglesi, per il 42% sugli introiti delle spagnole, per il 46% nelle casse delle francesi e per quasi la metà dei ricavi delle tedesche.
Il mercato langue – Anche il mercato non è più quello di una volta in serie A. Le plusvalenze nel 2015 scendono, rispetto al 2014, da 443,2 a 331,7 milioni, e sono soprattutto le squadre che lottano per un posto in Champions League a ridurre le operazioni in uscita, a voler trattenere i gioielli più preziosi per sperare di riconquistare la competitività perduta. Il dato, e questo è ancor più preoccupante, è sistemico. La contrazione, infatti, coinvolge tutti i livelli del calcio professionistico. Il quadro complessivo, infatti, fa emergere un crollo del 28% delle plusvalenze dalla serie A alla Lega Pro (da 528,2 a 380,8 milioni). “Il che significa” si legge nel rapporto, “da una parte che si assiste al tentativo dei club più importanti di non privarsi dei loro giocatori di maggiore valore, dall’altra che vi è poca circolazione interna per la difficoltà delle società di provincia di fungere da serbatoi per le cosiddette grandi squadre”.
Crescono i costi – Calano, lievemente i costi per ammortamenti e svalutazioni, da 636,6 a 629,7 milioni (-1,1%). Ma il costo del calcio in Italia torna a crescere. In termini assoluti si passa dai 1.187,7 milioni della stagione 2013-2014 ai 1.235,6 del 2015, con un dato medio per squadra che si attesta ai 65 milioni e il rapporto fra costo del personale e ricavi di vendita che risale all'85%. Quel che emerge, sottolinea il rapporto, è “un appesantimento della sostenibilità complessiva del sistema Serie A, anche perché quasi tutti gli indicatori risentono di una situazione patrimoniale e finanziaria molto delicata. Il patrimonio netto medio è abbattuto, anzi addirittura negativo per 0,7 milioni. Il livello d’indebitamento, cioè la misura del ricorso di un’azienda al capitale di terzi per finanziarsi, è addirittura oltre il cento per cento (100,4%). In crescita anche l’indebitamento medio per club da 155 a 157 milioni, con in particolare un aumento del 16,8% dei debiti finanziari, conseguenza preoccupante di una mancanza di liquidità propria”.
Conti in rosso – Il calcio italiano si basa ancora su strutture proprietarie fortemente concentrate. Il 77% delle 101 società analizzate ha un unico socio che possiede più del 50% del capitale, e in serie A la quota del socio di maggioranza raggiunge, come valore medio, l'87%. Anche se, nel massimo campionato, il proprietario di riferimento esercita il controllo attraverso almeno due livelli societari. Non solo. La serie A è ormai un campionato asfittico, anche dal punto di vista societario, con un trend di ricapitalizzazioni in costante riduzione (da 365 a 183 milioni fra il 2011 e il 2015), in parte anche per effetto delle sanzioni legate al fair play finanziario che hanno spinto a politiche più oculate di gestione finanziaria.
Conto economico – Ancora una volta, si conferma l'impatto positivo dei successi sul campo sul conto economico delle società, non tanto sullo stato patrimoniale. Nel periodo 2011-2015, le squadre arrivate direttamente in Champions senza passare prima dall'Europa League hanno ottenuto benefici immediati in media per oltre 54 milioni, e un miglioramento del risultato netto per 15 milioni. Arrivarci, invece, attraverso un primo passaggio in Europa League riduce l'aumento medio del valore della produzione a 32,8 milioni. L'Europa fa crescere significativamente anche l'indebitamento dei club: di 73,8 milioni nel primo caso, di 22,7 nel secondo.
Al contrario, anche senza l'effetto del fondo paracadute raddoppiato, l'impatto negativo della retrocessione in serie B è inferiore all'effetto positivo della promozione in A. “In caso di retrocessione” si legge, “il valore della produzione medio, nei casi analizzati, scende di 15,8 milioni e il risultato netto peggiora per 4,8 milioni. In caso di promozione in A, il valore della produzione medio cresce di 23,3 milioni e il risultato netto di 4,9 milioni”, anche perché, nel 2015, il costo medio per mantenere una rosa in B è quattro volte inferiore a quel che serve in serie A. Tutte, comunque, promosse e retrocesse, vedono peggiorare il proprio patrimonio netto.
Cambiamento imminente – Il calcio italiano, dunque, non ha registrato elementi di trasformazione nell'ultimo lustro, diritti tv a parte. Stabili i flussi economici, stabili le perdite in fondo, assenti o quasi le iniezioni di capitali da parte degli azionisti di maggioranza. In questa situazione, in un calcio indebitato per oltre 3 miliardi e con un patrimonio netto praticamente azzerato, l'apertura agli investitori e ai capitali stranieri non si può più rimandare. Non c'è questione di italianità che tenga. C'è in gioco la sopravvivenza del sistema calcio in Italia.