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Real Madrid-Barcellona, més que un Clasico

Il Parlamento catalano ha approvato la mozione per l’indipendenza da Madrid. Il premier Rajoy ha presentato un ricorso, accolto dalla Corte Costituzionale. Possibile un Barcellona fuori dalla Liga? Per questo, dopo la sosta, il Clasico assume forti significati politici come negli anni del franchismo.
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Il Clasico più politicizzato dell'era moderna. Era dal dicembre 1975, quando la bandiera catalana, la gloriosa sentera a strisce rosso e oro, tornò a sventolare al Camp Nou, che la sfida più sentita di Spagna, Barcellona-Real Madrid, non assumeva toni e contorni così fortemente politicizzati.

L'indipendenza e lo scontro politico – La mozione approvata in questi giorni dal Parlamento di Barcellona, presentata dalle due liste secessioniste Junts pel Si del presidente uscente Artur Mas (che ha promesso di portare la Catalogna all’indipendenza nel 2017) e dei radicali della Cup, che hanno la maggioranza assoluta nel parlamento catalano, riapre il braccio di ferro con il governo di Madrid sull'indipendenza catalana, già bollata come anti-costituzionale da Mariano Rajoy. Il premier ha presentato ricorso alla Corte costituzionale, che ha deciso all'unanimità di sospendere la mozione in via cautelare, in attesa di una sentenza nel merito. Non si è fatta attendere la risposta del governo regionale. "La volontà politica dell'esecutivo catalano è quella di andare avanti per quel che riguarda il contenuto della risoluzione approvata lunedì", ha dichiarato la vicepresidente Neus Munté. Una posizione che riecheggia quanto affermato nel sesto paragrafo della mozione: “Il nuovo Parlamento –recita il testo– e il processo di disgregazione democratica non accetteranno il vaglio delle istituzioni centrali”. In altri termini, le sentenze della Corte Costituzionale dalle parti di Barcellona saranno poco più che carta straccia. E alla vigilia del Clasico, in programma dopo la sosta per le nazionali, si torna a discutere del futuro del Barcellona e del calcio spagnolo. Perché, a norma di regolamento, se l'indipendenza dovesse davvero realizzarsi, la Liga si ritroverebbe senza i blaugrana.

Liga senza Barça? – Già a settembre, prima del referendum, il presidente della Liga spagnola, la LFP, aveva dichiarato che, in caso di separazione da Madrid, “i club catalani non potrebbero giocare nella Liga perché la legislazione lo impedisce. L'unico stato che può giocare in competizioni nazionali è Andorra”. Tuttavia, aggiungeva, “se si spacca la Spagna si spacca la Liga. Speriamo di non giungere mai a questa assurdità”. Mentre il Barcellona incassava l'offerta del premier francese Manuel Valls, che è nato proprio a Barcellona, il 13 agosto del 1962, e ha acquisito la nazionalità francese solo nella prima metà degli anni ’80. “Il Barcellona potrebbe giocare in Ligue 1” ha detto in un'intervista al settimanale Challenges, costringendo però l'ambasciata francese in Spagna a una notturna smentita. "Non credo che Valls abbia detto quella frase perche' quello che pensano i governi e' irrilevante a questo punto. Bisogna rispettare l'autonomia dello sport, non siamo noi a organizzare le competizioni ma le Federazioni" aveva replicato Miguel Cardenal, presidente del Consiglio superiore dello Sport, convinto che a perderci, nell'ipotesi di un'uscita del Barcellona dalla Liga, sarebbe tutto il calcio spagnolo. Dal punto di vista sportivo, e soprattutto economico.

Rivalità politica – Lo status del Barcellona come simbolo dell'identità catalana, come forza ribelle di sinistra opposta a un Real Madrid squadra di regime ha origini antiche. Anche se l'espressione “més que un club” entra nell'immaginario blaugrana solo con l'elezione di Narcis de Carreras alla presidenza della squadra nel 1968, il contrasto fra le due attuali forze del calcio spagnolo si è allargato a un fronte politico già dall'agosto 1936, con la fucilazione a Madrid dell'allora presidente blaugrana Josep Sunyol, uno dei 36 deputati eletti a febbraio di quello stesso anno con il partito Sinistra Repubblicana. Mentre il Generalissimo Franco impone l'abbandono della lingua catalana, tanto da costringere il Barcellona a cambiare denominazione (un'imposizione dall'autarchico Ambrosiana voluto da Mussolini al posto del troppo comunista Internazionale) e vieta l'esposizione della senyera anche all'interno del Camp Nou, la resistenza catalana contro il regime si organizza in tre correnti principali, i nazionalisti di matrice repubblicana, i marxisti e gli anarco-sindacalisti, e sfocia nel famoso sciopero generale dei tram a Barcellona nel 1951. Quella domenica, nonostante il diluvio, nessuno dei tifosi che era allo stadio per assistere al successo per 2-1 sul Santander, è salito sui mezzi pubblici. Ma è troppo semplicistico dipingere il Real come la squadra dell'estrema destra. Certo, esistono gruppi organizzati come gli Ultras Sur che hanno esposto simboli fascisti al Bernabeu, ma il club ha bannato a vita gli elementi più violenti. È certamente, da sempre, la squadra dell'élite, dei ricchi e dei conservatori.

Tutto inizia nel 1943 – Tuttavia, come dirà l'allora portiere di riserva del Barcellona, Fernando Argila, non esiste una vera rivalità con il Real fino alla semifinale di ritorno della Copa del Generalissimo (nuova denominazione della Coppa del Re) del 1943. I blaugrana hanno vinto in casa l'andata per 3-0, ma al ritorno subiscono intimidazioni da parte della polizia prima della partita. “Ricordate che alcuni di voi oggi possono scendere in campo solo grazie alla generosità del regime che ha dimenticato la vostra mancanza di patrottismo” annuncia, con più che probabile riferimento a tre giocatori, José Raich, Josep Escolà e Domingo Balmanya, che hanno lasciato la Spagna durante la Guerra Civile. Il Real vincerà 11-1: un risultato, scriverà Sid Lowe, “poco celebrato a Madrid, che però ha avuto un posto molto più importante nella storia del Barcellona”.

Il caso Di Stefano – Dieci anni dopo, sarà il caso Di Stefano ad accendere la rivalità di significati extra-sportivi. Nel 1949, la Saeta Rubia passa dal River Plate ai Millonarios, un club colombiano che rimane fuori dell'ambito della Fifa, almeno fino al “Patto di Lima” del 1952. Durante un tour in Spagna, Di Stefano attira l'attenzione di Real e Barcellona. Mentre Santiago Bernabeu tratta con i colombiani, i blaugrana raggiungono l'accordo con il River, proprietario del cartellino secondo le regole della Fifa, ma nonostante alcune foto di rito con la maglia del Barcellona, a spuntarla è il Real. In realtà, dopo nove mesi di trattative, il 15 settembre del 1953 i club concordano addirittura su una strana comproprietà: un anno da una parte, un anno dall'altra, per quattro stagioni. Ma la stampa catalana protesta, il presidente del Barça, Marti Carreto, deve lasciare, e i dirigenti che lo sostituiscono accettano di cedere l'argentino al Real per 5,5 milioni. Secondo il club, per le pressioni da parte di Franco. Di Stefano debutta in camiseta blanca poche settimane dopo, e nel primo Clasico della stagione 1953-54 segna quattro gol nel 5-0 del Real ai blaugrana. Il resto è storia.

Conclusioni – Ma cosa rimane di una rivalità che travalica da più di mezzo secolo i confini dello sport? Secondo Simon Kuper, non ha senso immaginare, come molti oppositori blaugrana, che il Generalissimo corrompesse gli arbitri o comunque esercitasse pressioni per facilitare i successi del Real. Semplicemente, non ne aveva bisogno. Gli bastava creare l'atmosfera, il clima perché quei successi arrivassero: per capirlo, basta guardare qualche vecchia immagine della tribuna VIP del Chamartin, oggi Bernabeu, sempre affollata dai dirigenti cui spettavano le decisioni chiave in politica come in economia. In fondo, sostiene Kuper, tutti i dittatori hanno concentrato da sempre le risorse (i generali, la polizia segreta, l'apparato burocratico) nelle capitali delle nazioni che hanno controllato, perché, per usare un'espressione del gergo culinario, todo se cuece allí, tutto si cuoce lì. Non a caso, tutte le squadre provenienti da nazioni sotto una dittatura che hanno vinto la Coppa dei Campioni hanno sempre rappresentato la capitale di quella nazione. E, di contro, quasi ogni squadra arrivata ai vertici in Europa da nazioni democratiche, sono arrivate dalla provincia, con l'eccezione dell'Ajax del calcio totale. Una regola che vale, per esempio, per la Juventus, per il Milan, per l'Inter, per il Manchester United, e oggi per il Bayern Monaco e il Barcellona. In sostanza, conclude Kuper, la storia è questione di geografia. Se il Palazzo Reale di El Pardo, dove Franco viveva, si fosse trovato a Barcellona e non a Madrid, il mondo del calcio e il Clasico di Spagna sarebbero stati molto diversi.

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