Razzismo nel calcio: non commettere atti (im)puri (FOTO)

Little Italy e i bravi ragazzi sono svaniti da un pezzo, assieme alle valigie di cartone, alle fotografie virate seppia, ai sogni disseminati qua e là, all’albero genealogico che ha piantato radici in giro per il mondo. “Broccolini”, paisa’ mezzosangue, connazionali col trattino che hanno fatto la storia senza spezzare le reni altrui, ma le proprie, e allevando una generazione di rimpatriati. Li chiamavano così ai tempi del fascismo, ne facevano una questione di razza pure nello sport: prima latina, a derubricare la Carta di Viareggio del 1926 ed elevare il tasso tecnico delle squadre di calcio indigene; poi ariana, con la vergogna delle leggi razziali del 1938. In entrambe i casi l’italico valore finì tragicamente sotto tacchi, tacchetti e mezze tacche che sognavano con audacia l’impero mentre c’era un Paese che, al massimo, aspirava a mille lire al mese, una casetta e una moglie giovane e carina. Gli oriundi, nati e cresciuti in terre lontane ma legati allo Stivale da vincoli di sangue, trascinarono l’Italia sul tetto del mondo illudendoci che, nella vita come in campo, avremmo fatto nostra anche la luna in fondo al Pozzo.
Chiusa l’epoca delle Mascelle. Irruppero gli angeli dalla faccia sporca e con essi il corredo accessorio di genio e sregolatezza, calzettoni arrotolati e capelli arruffati, baffetti fatali e voglia di rivalsa di uno Stivale distrutto e affamato dalla guerra e che, nella seconda metà degli Anni Cinquanta, viaggiava verso il boom economico. Gli italo-argentini Sivori, Maschio, Angelillo, l’italo-brasiliano Altafini e poi ancora “l’uomo ch’è venuto da lontano ha la genialità di uno Schiaffino, ma religiosamente tocca il pane e guarda le sue stelle uruguaiane”. Ah, Sudamerica… croce e delizia, inciampa nella Caporetto chiamata Cile. Calò così il sipario su una progenie di campioni legittimata dallo jus sanguinis che modulava, e declina ancora oggi, l’italianità in senso cosmopolita e multirazziale. Nel rugby bastano pochi anni di residenza nel Paese ospitante per acquisirne la nazionalità, senza aver indossato altre casacche: ecco perché gli azzurri hanno spesso annoverato molti atleti di origine australiana e neozelandese, i cui nomi (Josh Sole, Gonzalo Canale, Robert Barbieri) sembravano usciti da un crime movie di ambientazione proletaria. Un melting pot nonostante ignoranza e storie d’emarginazione si coniughino a fenomeni d’intolleranza.
Al peggio non c'è fine. Nel novero delle bestialità da stadio ci sono finiti anche lo striscione che sbeffeggiava il dramma umano di Pessotto, l'ironia macabra sulla tragedia dell'Heysel (una ferita aperta per tutta l'Italia non solo per il popolo bianconero) e l'eco dei versi razzisti rivolti ai calciatori di colore, le "solite" contumelie contro i meridionali con gli osanna al Vesuvio, alla memoria del colera e del terremoto che squassò la Campania. Episodi la cui gravità è stata spesso derubricata al rango di una sanzione amministrativa in un calcio senza controllo. Tutto ha un prezzo, anche la vergogna. Anacronistici come i fischi ai coloured people alla Balotelli, “troppo nero” per essere considerato italiano ed europeo, uno dei pochi nella legione straniera all'epoca dell'Inter di Mou. Bestiali come la gazzarra di una frangia di ultrà laziali per impedire l’ingaggio di un israeliano.
Razzismo anti arabo in Israele. Le gesta appartengono a un gruppo di tifosi del Beitar Gerusalemme, club famoso per la veemenza anti-araba di molti suoi sostenitori, che appartengono a movimenti della destra nazionalista: a ridosso del giorno della memoria, hanno esposto una serie di striscioni contro la dirigenza, e in particolare il patron Arkady Gaydamak, colpevoli di aver acquistato due calciatori russi che in realtà sono di etnia ceceno-musulmana, Zaur Sadayev e Dzhabrail Kadiyev, arrivati dal Terek Grozny. "Il Beitar rimarrà sempre puro", è stata la scritta rimasta esposta più a lungo, a testimonianza del fatto che i sostenitori vogliono solo ebrei e israeliti puri nella loro squadra. La storia siamo noi, nessuno si senta escluso.