Quell’Alessandria-Milan nel segno di Tacchi e Rivera
C'è una strana aria di rassegnazione al Moccagatta. Strana perché è solo la prima giornata del campionato 1959-60, che rimarrà nella storia come l'ultimo dell'Alessandria in Serie A e l'unico di Gianni Rivera con la maglia dei Grigi. Di fronte, c'è proprio la squadra che farà la storia insieme al Golden Boy del calcio italiano: il Milan. E i tifosi dei Grigi già prevedono una sconfitta inevitabile.
Gli inizi di Rivera – Il genio di Rivera era apparso per la prima volta qualche mese prima, ai primi di giugno del 1959, nella penultima giornata del precedente campionato. Arriva sulla scia dei campioni che han fatto grandi i Grigi negli anni pionieristici del Piemonte cuore del calcio italiano, messo sullo stesso piano del”Balon Baloncieri”, centravanti arretrato da 25 gol in 47 partite in azzurro con la visione di gioco sopraffina di un regista, di Ferrari, otto scudetti e due coppe Rimet n bacheca, di Banchero. “Sono soltanto nomi che venivano citati perché avevano fatto vincere l’Alessandria, ma all’epoca non c’era la televisione e i mezzi di comunicazione erano limitati a qualche giornale locale e alla radio” ha raccontato in un'intervista alla Stampa. “Impossibile per noi alle prime armi avere un idolo, vedevamo giocare la squadra in A e speravamo di arrivare anche noi lì, un fatto normale per ragazzini di 15-16 anni che si divertivano con il pallone. Ma ripeto, non avevamo il pensiero alla carriera: si andava a scuola al mattino e si giocava a calcio dopo i compiti. Vivevamo in una dimensione reale, dove nulla era amplificato”.
Ha esordito sempre al Moccagatta, contro l'Inter di Aristide Guarneri, poco più grande di lui. Quella prima partita contro l'Inter, ha spiegato, “la affrontai senza troppa emozione e senza le pressioni che molti giocatori hanno adesso. Anzi, alla fine, mi cambiai nello spogliatoio che era utilizzato dalle squadre del vivaio e così accadde anche altre volte. Poi, siccome venivo sempre convocato in prima squadra, fui ‘ammesso' nell’altro stanzone. Ero poco più che un bambino, anche i giovani di quell’Alessandria avevano almeno 5-6 anni più di me e li vedevo adulti. Così ero intimidito e stavo in un angolo, ma Pedroni e qualche altro veterano fecero da chioccia, facilitandomi l’inserimento”.
È ancora solo un ragazzo magrolini di meno di sedici anni in un'epoca in cui non si “costruiva” il corpo. “Ma io correvo, a calcio se non si corre non si può giocare” si difenderà. Eppure, quella fama da andamento lento se la porterà dietro per tutta la vita. In quella unica stagione in A con i Grigi, resterà memorabile un gol, uno slalom vincente al Vomero contro il Napoli. Salta due difensori, e “appena dentro l’area calciai di destro e presi in contropiede Bugatti. Pedroni che era il centromediano, il capitano e l’allenatore, venne ad abbracciarmi piangendo”.
Tacchi la chioccia – C'è anche un altro giocatore che gli ha fatto da “chioccia”: Juan Carlos Tacchi. “Lo ricordo come una persona generosa e disponibile. Io avevo 16 anni e lui mi aiutò a inserirmi nello spogliatoio” ha ricordato Rivera. Argentino di Basavilbaso, una delle prime comunità ebraiche d'Argentina, quasi al confine con l'Uruguay, Tacchi è figlio di un ferroviere. E non è una sorpresa: Basavilbaso si è sviluppata intorno alla stazione della Ferrocarril Central Entrerriano intitolata all'omonimo governatore della provincia.
Il padre ha assecondato la sua passione per il calcio e seguito l'inizio della sua carriera. Un viaggio albiceleste che fa tappa al Rosario Central, al Lanus, al Ferrocarril. Al Boca Juniors è stato solo di passaggio. Gli Xeneises lo prendono e lo girano in Italia, al Torino. Avrebbe potuto anche arrivare prima, ma all'Inter: le autorità, però, non gli consentono di espatriare perché non ha fatto il militare. Arriva in Italia a 24 anni, e nelle prime due stagioni segna 10 gol in 48 partite in un attacco con Ricagni, Arce, Jeppson e Armano. In campo è un folletto, è il re delle serpentine e dei calci da fermo. Tira punizioni potenti o morbide, a foglia morta, con la stessa efficacia.
E si diverte a cercare il gol direttamente da calcio d'angolo. Ne segna anche uno con la maglia della rappresentativa della Lega italiana contro l'omonima selezione inglese nel 1960 a San Siro. L'Italia vincerà 4-2, con due gol suoi e due di Altafini. In quella partita nascerà la famosa battuta di Niccolò Carosio, che esalta in televisione il "tocco di tacco di Tacchi".
Ultimo giro di giostra – Tocchi e giocate che fanno impazzire anche il Moccagatta, con quella maglia grigia che non vanta alcun tentativo di imitazione in qualsiasi altro club d'Europa. È il risultato di un' invenzione, un regalo di Giovanni Maino, magnate della bicicletta, che nel 1913 regala undici maglie da ciclista, della sua squadra, la Polisportiva Forza e Coraggio, all'Alessandria. È la stessa maglia grigia di Costante Girardengo, che nel 1939, per una gara sola, indosserà anche Fausto Coppi prima di propendere per la Legnano.
Una maglia talmente unica “da costringere la Federcalcio a sospendere un arbitro che non le distingueva da quelle del Venezia (il poveretto era daltonico)”. Certo, in quel 1959, l'Alessandria non è più la “leggendaria Alessandria del quadrilatero del football (Casale, Vercelli e Novara gli altri tre lati), un pugno di indomiti – allora si diceva così – che facevano impazzire le grandi firme del giornalismo, prima Bruno Roghi ("l' armonica compattezza dei suoi reparti, la dignità del proprio rango sportivo")” come racconta Maurizio Crosetti su Repubblica. Ma l'orso, il simbolo della squadra disegnato da “Carlo Bergoglio, al secolo Carlìn, penna e matita insieme di Tuttosport e Guerino, quando scrivere e disegnare lo sport era racconto epico, sfogo retorico, pretesto narrativo, iperbole romantica e sconfinata illusione” spicca ancora per una notte, per una stagione in serie A.
La tripletta al Milan – E nessuno si sarebbe aspettato che brillasse così contro il Diavolo al debutto della stagione 1959-60. “Al fischio finale dell'arbitro non si sarebbe potuto dire se nella folla alessandrina fosse più. forte l'entusiasmo o lo sbalordimento” scrive Ettore Berra sulla Stampa. Essa non aveva creduto nella sua squadra (…). Ma lo spettacolo che i grigi le hanno offerto è stato quale nessuno avrebbe osato attendersi, uno spettacolo avvincente e commovente, fatto di valore e di abnegazione, e ne è venuta fuori una vittoria che ha quasi sapore di miracolo. Ma miracolo non è”. è la logica conseguenza di una partita perfetta, di una impeccabile interpretazione del principio della difesa e del contropiede.
L'assetto dei Grigi è il solito, con Pedroni libero, le mezzeali arretrate e Giraudo in marcatura su Altafini. All'11' è già 1-0. Rivera tocca per Tacchi, spostato a sinistra, che supera Maldini e batte Gallesi. L'Alessandria a quel punto si arrocca dietro, il Milan sfonda solo al 38′, con il colpo di testa di Altafini che vale l'1-1. Sembra la prima tappa verso l'emersione della logica sull'imprevisto. Ma il secondo tempo racconta un ben diverso finale. È ancora Berra a raccontare i primi minuti della ripresa. “Si era ricominciato da appena cinque minuti ed ecco il terzino Raimondi partire dalla sua zona per una lunga volata. Sembrava una bravata inutile, anzi pericolosa per il vuoto che lasciava alle spalle, ma non ci fu nemmeno il tempo di pensarci. Giunta quasi a fondo campo, l'improvvisata ala destra eludeva l'intervento di Maldini e centrava: ecco Tacchi apparire, fatale come il destino, davanti alla porta, una zampata di sinistro e la palla finiva per la seconda volta nella rete”.
È un Milan testardo, che punta la manovra su Liedholm e non sulla genialità di Schiaffino, un Milan prevedibile che interpreta sempre la stessa musica. “Nell'altro campo” invece, resiste “un fervore d'entusiasmo ammirevole, una sveltezza di manovra sconcertante nelle azioni di contropiede, una vivacità d'iniziativa, una freschezza, uno slancio sorprendenti”. E a 4 minuti dalla fine, ancora Tacchi fronteggia Maldini. Stavolta però nessun dribbling, nessun tacco, nessun passaggio, ma una conclusione diretta, potente, precisa: traversa, gol, 3-1. Un giorno di gloria in una stagione triste e finale.