Oriundi in Nazionale, tre motivi per dire sì e tre motivi per dire no
Più di quaranta fino ad oggi. Tanti sono stati gli oriundi che nel corso della lunga storia della nostra nazionale. E oggi ne sono diventati 44 con gli innesti di Vazquez ed Eder mentre Paulo Dybala, argentino talentuoso del Palermo con passaporto italiano (e polacco), ha detto no alla corte sfrenata di Antonio Conte che lo avrebbe voluto nell'attacco della sua nuova Italia. Era questa infatti l'ultima idea dell'ex allenatore della Juventus che per il reparto offensivo è sempre alla ricerca dell'uomo giusto per far dimenticare le ultime tristi prestazioni. Non c'è che dire, Conte ci sta provando: Immobile, Zaza, Pellè, il ritorno anche del figliol prodigo Balotelli (non ancora all'orizzonte ma le porte non sono così sbarrate come prima). Nessuno però che lo abbia convinto definitivamente. E così ecco l'attenzione è volata verso uno dei giocatori più in forma del nostro campionato, la stella in rosanero che sogna di giocare con Messi e indossare la maglia della nazionale argentina, suo vero pallino. Le convocazioni di Antonio Conte hanno così riaperto il dibattito se sia utile e necessario la presenza di giocatori "oriundi" per la nostra Nazionale.
Chi è l'oriundo. Chi, nato e residente in una città o nazione, discende da genitori o antenati là trasferitisi dal Paese d’origine è definito "oriundo", ovvero persona giuridica che può usufruire di doppia o tripla nazionalità. In particolare il termine oriundo è diffusamente usato per indicare un atleta di nazionalità straniera ma di origine italiana, assimilato nella normativa sportiva ai cittadini della penisola e perciò ammesso a far parte della squadra nazionale azzurra. I precedenti ci sono e tanti, dal granata Julio Libonatti nativo di Rosario, in Argentina, e primo "oriundo" azzurro nel lontano 1926. O come i più famosi – e vincenti – Attilio Demaria, campione del mondo con la Nazionale nel 1934 e Mauro Germán Camoranesi, campione del mondo nel 2006.
Il partito del ‘no'
Più nazionalismo. Ogni qualvolta si parla di oriundi e Nazionale si apre il dibattito sull'effettiva opportunità di "aprire" alla casacca azzurra anche coloro che sono italiani ‘acquisiti'. Il ‘partito' dei puristi pretenderebbe vi fossero unicamente nati nella nostra Penisola, al di là delle qualità e della bravura dei singoli. Qualcuno ha storto fortemente il naso anche davanti all'ultimo arrivato, il giocatore del Verona, Romulo ma anche alla gestione di Prandelli che non ha chiuso le porte a nessuno, convocando giocatori come Ledesma, Paletta, Amauri.
Investimento nei vivai. Le motivazioni stanno soprattutto in un concetto che si radica laddove prende linfa anche il ‘partito' anti esterofilo, di chi rifiuta il costante utilizzo (a volte spropositato) di stranieri nel nostro campionato. Senza investire e crescere i talenti italiani, con costanza e impegno ricreando quel bacino che da sempre il nostro calcio ha prodotto senza necessità di doversi rivolgere all'estero.
Nessuna qualità aggiunta. E' vero, stando ai numeri gli ‘oriundi' in Nazionale, così come gli ‘stranieri' in Serie A spesso sono semplicemente bravi professionisti, buoni giocatori ma incapaci di fare la differenza. E allora perché volerli acquistare e convocare? Le critiche arrivano anche ricordando l'ultimo sciagurato Mondiale Brasiliano quando sotto la lente d'ingrandimento ci finì proprio chi la maglia della Nazionale – secondo questa tesi – non l'avrebbe meritata: il parmense Paletta. E non per prestazioni positive o negative ma semplicemente per un taglio di capelli che lo ha portato a essere – suo malgrado – oggetto di ironie sul web. Senza influenza alcuna sulle sorti azzurre in Brasile. Così come gli altri già citati della gestione Prandelli.
Il partito del ‘sì'
Qualità e opportunismo sulla scia di Demaria e Camoranesi. E allora perché Conte ‘ricasca' nel tranello del fascino dell'"oriundo". L'altra faccia della medaglia, meno purista e più realista, applaude all'apertura mentale del Ct: chi è bravo merita e se ha le credenziali per poter essere convocato lo sarà. O si farà in modo che si convinca di poter essere utile alla causa azzurra. Che ha perso appeal da tempo ma che resta pur sempre una Nazionale quattro volte iridata. E c'è anche ci la Coppa del Mondo l'ha alzata con la nostra maglia non con quella del Paese d'Origine. Nel 2006, lo juventino Mauro German Camoranesi e nel 1934 il nerazzurro Attilio Demaria, entrambi argentini, entrambi Campioni con l'Italia.
Il modello Germania multirazziale. Insomma, la necessità si deve tramutare in virtù e quindi ben venga anche Dybala nella comitiva degli oriundi. Che lo sono solamente sulla carta visto che oramai la Nazionale italiana – come il grande esempio da prendere in considerazione della Germania campione del Mondo – deve fare dell'integrazione una propria forza non una questione di divisione.
Figli e figliastri. Dopotutto il processo di internazionalizzazione è già in atto da anni. I detrattori non si sono forse accorti – o forse per utilitarismo hanno fatto finto di nulla – che molti giocatori a tutti gli effetti italiani, sono di chiare origini estere, perché di "stranieri" in Nazionale ce ne sono da sempre ma senza che nessuno abbia alzato la voce. Stiamo parlando dei vari El Shaarawy o Stefano Okaka, il primo di chiare origini egiziane, il secondo nigeriane, ma nati e vissuti in Italia. Senza dimenticare chi di italiano ha il nome ma non il colore della pelle, come Mario Balotelli. Insomma, loro sì, i vari Dybala, Romulo, Keita, Juninho no. E ci si domanda il perché.