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Napoli, se la Champions conta più dello scudetto. E Rafa Benitez più di Maurizio Sarri

E’ finito il ciclo di Sarri a Napoli? No è finito il ciclo di un gruppo giunto al top con il tecnico toscano ma allestito 5 anni fa grazie anche a un manager che ha portato calciatori divenuti una risorsa per l’azienda. Valorizzare talenti e vendere qualche pezzo pregiato come la Juve (Pogba e forse Dybala) e il Liverpool (Coutinho) è vitale per il futuro. Questo Napoli non può più permettersi un allenatore che, per il modo di gestire la rosa, costituisce un ostacolo alla possibilità di rigenerarsi senza disporre di petrol-dollari o altre ricchezze. E per questo che adesso, per fortuna o purtroppo, De Laurentiis pensa a un altro Benitez più che a (un altro) Sarri.
A cura di Maurizio De Santis
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Cosa ha vinto il Napoli in questi 3 anni? Niente. In questi 3 anni ha conquistato l'accesso a qualche finale? No. S'è spinto un po' più oltre lungo il cammino nelle Coppe? No. Chi ha vinto l'ultimo trofeo? Rafa Benitez nel dicembre del 2014, quando strappò la Supercoppa dalle mani della Juventus dopo aver portato in dote anche la Tim Cup. L'una di seguito all'altra, le prime dopo l'exploit con Walter Mazzarri. E' colpa di Maurizio Sarri se gli azzurri non hanno vinto lo scudetto o messo in bacheca qualche altro titolo? No di certo, al netto degli errori di valutazione che tutti commettono e non sempre per responsabilità dirette o imperizia personale.

E se sotto il Vesuvio sarà possibile per la terza volta consecutiva ascoltare ancora la musichetta della Champions League è un primato in calce al quale c'è la sua firma: considerato quanto vale in termini d'introiti – dalla prossima stagione il montepremi sarà anche più elevato – l'aver centrato la qualificazione è pari anche all'orgoglio della coccarda tricolore e in linea con le ambizioni di un club la cui storia di successi (che non sia il record di punti) non è eccelsa.

All'attuale allenatore dei partenopei va dato il merito di aver alimentato un percorso di maturazione iniziato con la visione manageriale del tecnico spagnolo. E' in quel solco (e con quell'ossatura di calciatori) che ha operato, portando a compimento l'evoluzione di una squadra alla quale mancavano una proposta di gioco e un'identità tattica definiti e riconoscibili, che offrissero spettacolo e fossero apprezzati anche al di là dei confini patrii; di aver messo in pratica un'idea di calcio che – senza eccedere negli accostamenti a Cruijff, alla grande Olanda e a cosa ha rappresentato negli Anni Settanta – ha mostrato come sia possibile (anche in un Paese che ha sempre avuto il proprio baricentro in difesa) riscuotere consensi attraverso lo studio, l'allenamento e l'applicazione metodica della disciplina degli schemi. Non quella cieca che ingabbia la fantasia ma l'ingranaggio che rende perfetto, o quasi, un meccanismo collettivo. Un integralista? Dipende dal metro di giudizio che s'intende adottare.

  • No. Perché basta dare una ripassata a com'è cambiato il Napoli in questi anni sotto la sua gestione per capire come – complice anche la malasorte (soprattutto per l'infortunio di Milik in attacco) – sia stato molto più malleabile di quanto si pensi pur conservando le proprie certezze tattiche e, al tempo stesso, adattando alla propria visione quei calciatori che aveva a disposizione esaltandone le qualità. Avreste mai pensato che Mertens, fino a quel momento alter ego di Insigne e ‘spalla' di Higuain, potesse diventare un nove vero o Koulibaly un regista arretrato che partecipa alla costruzione della manovra? Ecco, questo forse è l'esempio più lampante di come sia stato bravo, lucido e fortunato.
  • Sì. Ed è forse questa la pecca maggiore che rende difficile la sua permanenza se nell'analisi complessiva del lavoro svolto si tiene conto anche del passo indietro fatto in Europa, della gestione monotematica della rosa e del gioco che rappresenta l'altra faccia della medaglia e stride con le necessità dell'azienda Napoli. Il modello tattico, l'habitus esigono interpreti capaci di recitare un ruolo preciso e all'interno di questo ambito chiunque non riesca a cogliere queste sfumature viene emarginato. E' il caso di Maksimovic, Rog, Diawara, Giaccherini o addirittura Pavoletti: calciatori non di primissima fascia (ma nemmeno così poco fruibili) e irrimediabilmente espulsi dal ‘cerchio magico' delle scelte e dal circolo tracciato cinque anni fa da una figura manageriale (Rafa Benitez) più che maestro di campo (Maurizio Sarri). Sarà anche per questo che è stato così difficile vincere a gennaio la titubanza di Simone Verdi? Può darsi, meglio sarebbe stato – come per Politano – prenderlo a giugno.

Questo Napoli, per quanto si voglia fare il gioco/ragionamento da bar sport del dagli al pappone che non caccia i soldi, non può permettersi una panchina milionaria né investimenti su calciatori che – tra costi d'ingaggio, stipendio, ammortamenti e tasse – ne decreterebbero la morte nel giro di una stagione. Non lo consentono le risorse, né l'esigenza di avere conti in regola né le nuove prescrizioni della Uefa che, attraverso il fairplay finanziario, ha stretto le maglie intorno ad artifici di bilancio e alla finanza creativa. Perfino la Juventus (che ha alle spalle un colosso internazionale – la Fiat – e insiste su asset patrimoniali/immobiliari come nessuno in Italia) mette un tetto agli ingaggi e in agenda cessioni eccellenti (è toccato a Paul Pogba, il prossimo potrebbe essere Paulo Dybala) o il Liverpool si priva di Philippe Coutinho a stagione in corso per autofinanziarsi. Perché non dovrebbe o non potrebbe farlo il Napoli?

E' stato così in questi anni che hanno sì generato profitti ma anche garantito la continuità del progetto di crescita graduale fino ad affacciarsi stabilmente in Europa trascurando, però, una parte altrettanto essenziale: l'infrastruttura della società che non è solo fatta da figure dirigenziali (al momento a conduzione familiare con l'eccezione di Chiavelli, braccio destro e propaggine per la simbiosi con la FilmAuro) ma anche da un settore giovanile, un centro sportivo o (magari…) uno stadio di proprietà.

E dove dovrebbe prendere tutti questi soldi il club per foraggiare piani del genere? Il Napoli non può permettersi un allenatore al quale va tributato sicuramente un grande applauso per il lavoro svolto ma costituisce un ostacolo a questa politica societaria che finora ha trovato la forza di rigenerarsi senza disporre di petrol-dollari o ricchezze derivanti dalla munificenza di altri magnati che hanno investito nelle franchigie sportive.

Sarri deve andar via? No, è amatissimo dalla piazza e l'empatia tra un allenatore e il (suo) popolo di tifosi ha rappresentato (e rappresenta) una fonte di energia alternativa preziosa. No, a patto che il suo modello di riferimento collimi con quello dell'azienda che gli ha dato pieni poteri quando ha accettato il ‘patto scudetto' e nell'estate scorsa – stoppando ogni cessione eccellente e contenendo gli investimenti – ha provveduto anche al rinnovo dei big ma adesso fa il conto di quelle scelte. No, a meno che non abbia legittime ambizioni personali e professionali differenti, tali da trasferirsi in club più ricchi e potenti a livello internazionale. In tal caso gli andrebbe fatto solo un grande in bocca al lupo, salutandolo con un abbraccio affettuoso e sincero.

E' finito un ciclo? Sì ma non il suo. E' finito il ciclo di un gruppo allestito cinque anni fa grazie anche a una figura (Rafa Benitez) che a livello internazionale ha speso la propria rete di contatti portando calciatori come Higuain (poi volato alla Juve), José Callejon, Pepe Reina, Raul Albiol (non top player ma almeno rivelatisi di prima fascia) ai quali si sono aggiunti Faouzi Ghoulam, Dries Mertens, Jorginho e Koulibaly. E a giudicare dalle ultime parole del presidente Aurelio De Laurentiis se separazione ci sarà è perché questo Napoli ha bisogno di un altro manager che ponga le basi per il futuro e quel periodo così esaltante, culminato con un quasi scudetto e la terza qualificazione consecutiva alla Champions, continui. Con o senza Sarri. Per fortuna o purtroppo.

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