Maradona e Castro, le idee non si negoziano
“Se qualcosa ho imparato degli anni della nostra sincera e bella amicizia è che la lealtà non ha prezzo, che un amico vale più di tutto l’oro del mondo, e che le idee non si negoziano”. Così Diego Maradona chiudeva la lettera inviata nel gennaio del 2015 a Fidel Castro. Un anno fa quello scambio epistolare, pubblicato a ottobre sul Granma, il quotidiano del partito comunista di Cuba, diventarono la prova delle condizioni di salute del Lìder Maximo, che non si faceva vedere in pubblico da agosto.
È morto il mio amico, il mio confidente, che mi ha consigliato, che mi chiamava a qualsiasi ora per parlare di politica, di calcio, di baseball. Mi disse quando c'era Clinton, che il suo successore, Bush, sarebbe stato il peggiore. Come non si sbagliava mai, per me Fidel è, è stato e sarà eterno, l'unico, il più grande – ha scritto l'ex Pibe in un messaggio pubblicato su Facebook -. Mi fa male il cuore perché il mondo perde il più saggio di tutti.
Le lettere del 2015 – Oggi quelle lettere, in cui Castro scrive al Pibe de Oro dell'incontro con i “los Cinco”, i cinque agenti cubani rilasciati dagli Stati Uniti nel primo atto della distensione diplomatica fra Usa e Cuba Castro commenta la multa che “nel recente campionato Centroamericano e dei Caraibi, in una disciplina così importante come il calcio, un giudice ha imposto (e) che non era assolutamente giusta. Il denaro per i ricchi e le penalità per i poveri”.
È l'ultimo capitolo di una storia iniziata da lontano. Il ritratto di un leader che ha iniziato una rivoluzione e del campione che ha cambiato il calcio, che ha mostrato al mondo l'esistenza di un'altra America.
La prima visita nel 1987 – Maradona ha visitato Cuba per la prima volta nel 1987. Da allora è tornato più volte, è qui che ha deciso di disintossicarsi, la prima volta nel 2000. Castro si trasforma in qualcosa di più di un riferimento politico. Maradona gli regala la maglia del suo esordio con il Newell's Old Boys o l'Albiceleste con il numero 10 e l'autografo. Nel 2005 regala a canal 13, per il programma che allora conduceva, il suo grande scoop: il Pibe de Oro intervista Fidel Castro nel palazzo presidenziale dell'Havana.
Il Comandante è Dio – «Para mí, il Comandante è Dio» aveva detto, tanto da decidere poi di farselo tatuare sulla gamba, a completare il quadro del Che, nell'immagine resa icona pop da Alberto Korda, sul braccio destro. «Fidel e il Che sono i miei eroi – ha dichiarato Maradona alla Gazzetta dello Sport – perché non hanno vinto comprando i voti, ma mettendo in gioco le loro vite a Cuba».
Castro e lo sport – Non parlano di sport, ma di quell'America che ha tradito Maradona con quella che ha sempre considerato la trappola della positività al Mondiale 1994. Castro ama gli atleti, soprattutto gli alfieri dell'orgoglio nazionale cubano. Ha spesso usato lo sport, e non è certo l'unico, come strumento di promozione dell'orgoglio nazionale.
L'inizio morale della sua Revolución Cubana coincide con l’assalto alla Moncada di Santiago di Cuba il 27 luglio 1953. A poche ore dal 23mo anniversario, il 26 luglio 1976, il “Caballo” Alberto Juantorena regala a Cuba la prima medaglia olimpica di sempre nell'atletica. “No. Non è una data storica. Domani è l’anniversario dell’assalto. Il sangue che Fidel e i suoi hanno versato quel giorno: quello sì che è storico!” dichiara. Sarà poi eletto ministro dello sport, con un nipote, Osmany, considerato dissidente che a 16 anni, nel 2001, vive la storica fuga di 16 ragazzi della nazionale di volley durante un viaggio in Belgio: è lo stesso Osmany che con Zaytsev ha esaltato l'Italia ai Giochi di Rio.
Maradona e Cuba – Dopo l'intervista del 2005, Castro regala a Maradona un paio di guantoni da boxe della più grande leggenda della cubanidad, Teófilo Stevenson, il tre volte campione olimpico che rinunciò ai soldi e al professionismo per continuare a rappresentare l'isola ai Giochi.
Sceglierà Cuba anche per realizzare il suo programma di commento agli ultimi Mondiali di calcio insieme a Hugo Morales, l'artista della telecronaca che ha inventato il “barrilete cosmico”, l'aquilone cosmico, per raccontare il gol del secolo. È la testimonianza di un legame, di una corrispondenza di ideologici sensi, di quella vita larger than life che ha portato Paolo Condò a definire il Pibe de Oro un moderno Bolivar. Se parlano i presidenti dell’America Latina, diceva, “i media li ignorano. A me invece danno ascolto. Faccio loro da portavoce”. Perché le idee non si negoziano.