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Lezione Mondiale: Italia e calcio italiano da rifondare, non basta cambiare ct

Negli ottavi di finale del Mondiale Cile, Algeria, Nigeria, Messico, Stati Uniti, Svizzera non hanno avuto paura né bisogno di alibi. Noi eravamo a corto di tutto, a cominciare dalla mentalità sbagliata. Serve coraggio, forza per ricominciare. Dal 2006 a oggi siamo finiti in un vicolo cieco.
A cura di Maurizio De Santis
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Ma dove volevamo presentarci combinati in quel modo? A giudicare dallo spettacolo offerto dalle altre nazionali negli ottavi di finale in Brasile, eravamo (e siamo) a corto di tutto: fiato, fiducia, compattezza di gruppo, coraggio, mentalità, spessore tecnico. Sconfitti in partenza, non in campo ma da quando abbiamo messo piede sull'aereo che ci ha portati in Brasile. Vabbe', dai, Balotelli è un mezzo campione e un piantagrane. Però questo lo sapevamo già e non c'era bisogno di arrivare dall'altra parte del mondo per capirlo. Vabbe', dai, la nemesi dell'arbitro Moreno (da Byron a Rodriguez) ci perseguita: poi guardi l'Italia di allora che giocava con Totti, Del Piero, Vieri in attacco (lasciando Nesta, Montella e Inzaghi in panchina) e capisci perché siamo passati da SuperPippo a SuperMario e abbiamo fatto la figura della Superpippa. Cadute fragorose, vittorie mutilate (come quella illusoria contro l'Inghilterra) fanno parte del nostro dna: del ‘si può vincere anche perdendo' siamo maestri, dopo averle prese sul muso a Euro 2012 dalla Spagna per manifesta inferiorità ce lo siamo ripetuti fino a stordirci, cullandoci nell'insostenibile leggerezza dell'essere campioni e furbetti. Adesso ci vuole (più) coraggio perché il meglio è passato, non ci basterà cambiare solo il ct. Il cielo non è più azzurro sopra Berlino da un pezzo e in difesa non abbiamo più Fabio Cannavaro (Pallone d'Oro), uno che davanti all'area di rigore combatteva come fosse sulla linea del Piave.

Nel 2006 vincemmo la Coppa del Mondo umiliando la Germania a domicilio. Otto anni dopo gli dei del calcio ne hanno premiato investimenti, pianificazione tecnica, processo di rinnovamento e integrazione. Allora, con le solite copertine dedicate ai "mangiaspaghetti", incartarono solo la delusione. "Piangiamo con i ragazzi di Loew" commentò la Bild, quasi a celebrare un lutto durissimo da elaborare e chiese "Qualcuno ha il numero del Papa?". "Dolorosamente vinti da Balotelli" titolò la Sueddeutsche Zeitung. La Welt alzò bandiera bianca: "Balotelli distrugge il sogno del titolo della Germania". Il settimanale Focus ammise la resa incondizionata e ne fece una questione patologica: "Fallimento contro l'Italia, il trauma italiano continua". Lo Spiegel proprio non riuscì a pronunciare il nome del nostro Paese, con un groppo in gola s'abbondò a una personalissima perifrasi: "La Germania ha meritatamente perso la semifinale". Gli stessi che oggi celebrano Klose e la disfatta del Brasile. Peggio del Maracanazo.

La classe di Pirlo, le parate di Buffon, la grinta di De Rossi, le ‘perle' di Cassano, la forza di Balotelli: restammo aggrappati a quelle anche due anni fa dopo il naufragio di Sudafrica 2010, ma il secondo posto coprì un bel po' di magagne. "Io penso che per segnare bisogna tirare in porta. Poi loro sono loro, noi siamo noi". Appunto, zio Vujadin, noi siamo noi… quelli che contro Costa Rica (!) e Uruguay un tiro in porta nemmeno l'hanno fatto; quelli di ‘meglio due feriti che un morto solo' che ci portiamo appresso quando camuffiamo la paura e l'incapacità di fare gioco come strategia tattica. Poi vedi Cile, Algeria, Nigeria, Messico, Stati Uniti, Svizzera – che in campo danno tutto fino a sfiorare l'impresa anche contro avversari più forti – ed è allora che capisci quanto siamo messi male: non hanno badato solo a difendersi, facendo barricate e provando sortite in contropiede, ma hanno aggredito gli spazi, costruito azioni. Loro, hanno una generazione di talenti che preme alle porte. Loro, non hanno avuto paura né bisogno di alibi. Cuore, anima e identità di gioco hanno mandato in crisi Francia, Germania, Brasile, Argentina e Olanda salvate dallo spunto dei campioni. Pure questo ci manca. Avessimo superato lo sbarramento della fase a gironi la Colombia ‘italiana' di Pekerman ci avrebbe preso a pallate: ‘cafeteros' a correre noi a (rin)correre la palla. "Un grande giocatore vede autostrade dove altri solo sentieri". Hai ragione tu, zio Vuja. Il guaio è che siamo finiti in un vicolo cieco.

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